Ricorre quest’anno l’80esimo anniversario delle leggi razziali. Era il 1938 quando fu firmato da Vittorio Emanuele III il regio decreto che recependo l’indirizzo imposto da Benito Mussolini per compiacere l’alleato nazista diede il via libera ad una serie di azioni discriminatorie nei confronti degli ebrei italiani, che furono oggetto di pesanti limitazioni alle proprie libertà individuali oltre che progressivamente spogliati da beni mobili e immobili. La legislazione antisemita proibiva matrimoni misti e il divieto per le amministrazioni pubbliche (ma anche per banche e assicurazioni) di avere cittadini ebrei alle proprie dipendenze. Alla luce di ciò, decine di insegnanti e scienziati furono costretti ad abbandonare le proprie cattedre o a lasciare l’Italia per trasferirsi in Inghilterra o negli Stati Uniti. Qualche anno dopo, utilizzando gli elenchi resi disponibili dalle Questure e con la collaborazione dei repubblichini, i nazisti deportarono nei campi di concentramento 8500 ebrei italiani: solo in mille fecero ritorno a casa, mentre gli altri trovarono la morte nelle camere a gas o nei lager.
Vale la pena ricordare tutto ciò perchè mai e poi mai un Paese che ha vissuto questo tipo di drammi, capaci di segnare in maniera indelebile migliaia di famiglie e intere generazioni, meriterebbe di avere uomini politici che, 80 anni dopo, tornano a parlare di “razza bianca”. La frase pronunciata alcuni giorni fa dal candidato alla presidenza della Regione Lombardia Attilio Fontana non è solo uno scivolone dialettico o una nota stonata. Si tratta infatti dell’ennesima dimostrazione di un regresso generale che sta caratterizzando il dibattito politico in Italia: da un lato si rivendica il valore delle nostre radici e della nostra identità a fronte di una presunta invasione da parte di altre etnie; dall’altro si dimentica che le radici della nostra Repubblica affondano proprio nel rifiuto delle leggi razziali e nell’articolo 3, quello che ci vede tutti uguali davanti alla legge, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, aggiungendo che tocca alla Repubblica “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Di fatto, la contesa politica si combatte a colpi di ignoranza e superficialità, nella convinzione che il livello dell’opinione pubblica sia talmente basso da giustificare un tipo di comunicazione che agita il fantasma della xenofobia per colmare l’incapacità di proporre soluzioni adeguate ai problemi e ai bisogni delle fasce più disagiate della popolazione. Qualsiasi formazione politica che si candidi a gestire una comunità, piccola o grande che sia, avrebbe invece il dovere di ricordare il citato articolo 3, il cui spirito aleggia magnificamente anche in una celebre frase attribuita ad Albert Einstein: “Io appartengo all’unica razza che conosco, quella umana”. Tutto ciò, senza dimenticare l’altrettanto celebre testo di Bertold Brecht, che ognuno di noi dovrebbe infilare dentro il portafogli, ricordandosi di rileggerlo a intervalli regolari: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.