Un giorno la storia ci chiederà conto della nostra indifferenza su quanto sta accadendo da due anni a Gaza. Arriveranno articoli, saggi, pubblicazioni, film, in cui ci verrà chiesto com’è stato possibile, dove eravamo, cosa abbiamo fatto… Lo chiederanno, soprattutto, a quel mondo occidentale di cui – volenti o nolenti – facciamo parte e che nello scenario di guerra in Medio Oriente, in corso da due anni, è rappresentato dallo Stato di Israele e dal suo presidente, Benjamin Netanyahu. Dal 7 ottobre del 2023 ad oggi le stime più accreditate parlano di 230 mila morti, per lo più civili, molti dei quali bambini. L’Onu è tornata ad accusare gli israeliani di genocidio, attraverso la negazione sistematica dei diritti umani a danno della popolazione palestinese, cui purtroppo contribuisce anche l’atteggiamento sciagurato di Hamas, che nonostante l’evidente squilibrio delle forze in campo non intende alzare bandiera bianca.
Uno scenario che ha assunto connotati sempre più apocalittici in questi giorni, con l’operazione militare a Gaza City che sta seminando morte e devastazione in un folle crescendo che somiglia tanto a una “soluzione finale”, ripresentando ai nostri occhi parole che sembravano archiviate nella storia del ‘900. Stati Uniti e Unione Europea, sulla carta i principali alleati di Israele, stanno facendo ben poco per arginare questo massacro. Dal basso c’è stata la lodevole iniziativa di Global Sumud Flotilla, c’è l’attivismo di tante associazioni che cercano di sensibilizzare le popolazioni. Ma tutto ciò non basta. E’ arrivato il momento che qualcuno fermi Israele, attraverso un’azione politica seria, che non si limiti a generiche dichiarazioni di dissenso. La sensazione è, invece, che ci siano altri disegni di cui solo negli alti palazzi del potere si è a conoscenza. Un po’ come avviene con la questione ucraina, dove l’aggressione russa va avanti da 3 anni e 8 mesi senza che mai ci si sia davvero avvicinati alla conclusione del conflitto. Nel frattempo, le destre al governo cercano di tacitare ogni forma di dissenso e persino le fondamenta democratiche degli Stati occidentali sembrano messe in discussione.
Non sembra casuale che, in questo momento storico, venga annunciata la realizzazione di un grande polo militare per l’addestramento dei piloti degli F-35 a Trapani-Birgi, condito da promesse di indotto e sviluppo economico tipiche di un’economia di guerra, che mal si conciliano con la visione dei tanti che hanno immaginato, in questi anni, un futuro nel segno della valorizzazione culturale e ambientale del territorio trapanese in chiave turistica. Se proprio, dunque, vogliamo dare un contributo al mondo che verrà, non possiamo che partire dai luoghi in cui viviamo, facendo sentire con forza la contrarietà della nostra comunità rispetto a un’ulteriore azione di militarizzazione del territorio, che non può avvenire sopra la testa di chi, nonostante tutto, ha scelto di continuare a credere in questa terra.