Se fosse stata solo la mafia, alla verità si sarebbe arrivati abbastanza velocemente.
E, a dire il vero, ci avevano anche provato, a impostarla così, mettendo in campo quello che è stato definito “il più grande depistaggio della storia repubblicana”, con la macchinazione che ha portato per anni a credere che i fatti fossero andati come raccontava Vincenzo Scarantino, criminale di secondo piano improvvisamente assurto al ruolo di affidabile collaboratore di giustizia. Se non fosse stato per le successive rivelazioni di Gaspare Spatuzza, probabilmente saremmo ancora fermi lì, nonostante qualche voce dissonante avesse provato ad avvertire l’opinione pubblica italiana che la verità sulla Strage di via D’Amelio andava cercata altrove.
Con il tempo ha poi preso forza una ricostruzione alternativa, decisamente più attendibile, che vedeva nella Trattativa Stato-mafia il contesto in cui maturò la decisione di uccidere Paolo Borsellino, a 57 giorni dalla Strage di Capaci, in cui era stato ucciso Giovanni Falcone. Una parte delle istituzioni e del giornalismo italiano, tuttavia, ha sempre osteggiato questo tipo di ricostruzione, preferendo puntare su un’altra pista, quella riguardante il rapporto “mafia e appalti” su cui Borsellino stava indagando. Ed è in questa direzione che sta spingendo, negli ultimi due anni, la Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Chiara Colosimo, molto vicina alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nonchè alle posizioni più volte espresse dall’ex direttore del Sisde Mario Mori, pubblicamente riabilitato dopo essere stato assolto in Appello (assieme ai colleghi De Donno e Subranni) nell’ambito del processo sulla Trattativa.
Negli ultimi giorni, tuttavia, sta riprendendo piede anche la cosiddetta “pista nera”, secondo cui alcuni personaggi legati all’estrema destra avrebbero avuto un ruolo nella Strage di via D’Amelio, così come – verosimilmente – era avvenuto per l’omicidio di Piersanti Mattarella e in altre situazioni particolarmente controverse della storia italiana. Senza dimenticare che, tre settimane fa, la procura di Caltanissetta ha disposto una perquisizione presso le abitazioni dell’ex procuratore Gianni Tinebra, affiliato alla massoneria, a cui l’ex dirigente della Polizia Arnaldo La Barbera avrebbe consegnato l’agenda rossa di Paolo Borsellino il 20 luglio del 1992, all’indomani della Strage.
Di quel diario di lavoro in cui il magistrato palermitano annotava ogni cosa, tuttavia, ancora non si trova traccia. Eppure, possiamo dire con certezza che è sempre stato nelle mani dello Stato, o quantomeno di certi suoi rappresentanti che, evidentemente, in questi 33 anni hanno fatto di tutto per tenerlo nascosto, magari utilizzandolo come arma di ricatto. Senza l’agenda rossa, probabilmente, non sapremo mai chi ha organizzato la Strage di via D’Amelio, così come continuiamo a non sapere con esattezza la verità sul caso Moro e su tante altre vicende italiane. Certo, continueremo ad omaggiare Borsellino, Falcone, Moro, Dalla Chiesa, Mattarella, Chinnici. A deporre corone di fiori, a intestar loro strade, piazze, scuole, ospedali, raccontando alle nuove generazioni il loro coraggio, l’amore per le istituzioni, lo spirito di sacrificio. Ma che amarezza nel non poter raccontare loro la verità dopo così tanti anni…
Perchè, a conti fatti, paradossalmente è stato più semplice arrestare Totò Riina, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, che entrare in possesso dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, custodita da rappresentanti dello Stato italiano. E questa è una sconfitta che dovrebbe togliere il sonno a tutti coloro che hanno a cuore la storia di questo Paese.