In Sicilia, tradizionalmente, l’estate è la stagione dei ritorni. E’ il momento dell’anno in cui i tantissimi fuorisede preparano i bagagli per tornare nelle proprie città d’origine, per riabbracciare i familiari, gli amici, i luoghi del cuore. Dopo l’entusiasmo per il primo cous cous della stagione, il primo tuffo in una giornata di albarìa, la rimpatriata con i vecchi compagni di classe o l’immancabile aperitivo al tramonto, poco per volta si fa strada in molti di loro il solito senso di insofferenza per tutto ciò che non va. I servizi che non funzionano (o comunque sono distanti anni luce dagli standard a cui sono abituati nelle regioni in cui vivono il resto dell’anno); il decoro urbano che lascia a desiderare (perchè gli addetti al verde pubblico sono sempre pochissimi, le disinfestazioni si fanno sempre a stagione inoltrata e le microdiscariche abusive di rifiuti non mancano mai); i cantieri che hanno durate infinite (ben vengano le opere pubbliche, ma non è accettabile che i tempi di consegna non vengano mai rispettati); l’offerta culturale non sempre risulta soddisfacente (certo, i programmi delle Orestiadi e delle rassegne di Segesta e Selinunte sono di alto livello, ma il resto è spesso desolante).
Poi c’è il lavoro, certo. Ma la sensazione è che se anche ci fosse, probabilmente tanti non tornerebbero lo stesso. Perchè dalle loro testimonianze emerge con forza un aspetto che, 20 anni fa, poteva apparire secondario: la vivibilità. E qui non si parla dell’aria pulita delle nostre località costiere da opporre allo smog della Pianura Padana. Ma si parla, appunto, di servizi. Quelli citati all’inizio di questo editoriale sono soltanto quelli più visibili a chi arriva qui per le vacanze. Ma chi vive qui tutto l’anno conosce bene tutto il resto. E per una famiglia che da anni si trova per lavoro al centro nord, non è più immaginabile vivere in un territorio in cui non si riesce a risolvere il problema delle liste d’attesa nella sanità, i reparti di Pronto Soccorso condannano gli utenti a anticamere interminabili, non esistono scuole pubbliche con il tempo pieno (o comunque sono pochissime) e i collegamenti con il resto della Sicilia per i pendolari restano altamente problematici.
Di fronte a tutto ciò, chi ha la responsabilità di amministrare la “cosa pubblica” dovrebbe chiedersi dove si è sbagliato e come si può intervenire per rendere migliore la vita per chi vive qui e per far sì che questo territorio torni attrattivo non solo per i turisti ma anche per chi è nato e cresciuto da queste parti, ma poi ha preso il volo per altri lidi e ritiene che non ci siano le condizioni per tornare indietro.
Nei giorni scorsi, intorno ai palazzi della Regione Siciliana si è ricominciato a parlare della possibilità di adottare regimi fiscali agevolati per invogliare al trasferimento nell’isola imprese e pensionati, un po’ come si è fatto in Portogallo. Il governo lusitano, tuttavia, è recentemente tornato sui suoi passi, ritenendo non più sostenibile un modello che, dopo quindici anni, aveva creato una situazione di iniquità fiscale tra i residenti storici e i nuovi arrivati.
Ma poi, a pensarci bene, siamo certi che un pensionato, che evidentemente ha certe necessità, sceglierebbe di trasferirsi in una terra tremendamente indietro sul fronte dei servizi?