Puntuale come una delle feste comandate, è arrivata anche quest’anno la settimana – non a caso ribattezzata ‘santa’ – di Sanremo, con il suo prevedibilissimo rituale di incrociati snobismi tra coloro che non guardano il festival, e sentono ogni volta il bisogno di gridarlo al mondo intero, e coloro che al contrario discriminano la povera minoranza di quelli che magari il festival non se lo guardano per davvero. Appare ormai quasi impossibile, in ogni caso, sottrarsi al chiassoso brusio sulla kermesse sanremese, perché non si tratta più semplicemente di un festival canoro, come ai tempi di Flaiano e di quel Pasolini che definisce addirittura “Sanremo e le sue canzonette qualcosa che deturpa irrimediabilmente una società”. Oggi siamo di fronte a un grande evento mediatico, a un contenitore di proposte non soltanto musicali, nonché allo specchio forse più fedele del costume di massa della società italiana. E così, qualsiasi disputa storica – in nome di quella contrapposizione netta tra cultura cosiddetta ‘alta’ e universo pop (vera o presunta che sia) – è diventata negli anni sempre più strumentale, precaria, datata.
Pressoché immutato rimane invece il ‘conflitto di genere’ tra poesia e canzone d’autore: una questione che durante l’appuntamento con le “canzonette” di Sanremo si fa ancora più accesa. Nonostante il fatto che per alcuni autori di poesia il palco dell’Ariston rappresenti una potenziale vetrina per raggiungere un pubblico vasto, lo statuto rimane separato: i poeti rivendicano una differente identità rispetto ai cantautori. Si pensi alla reazione scandalizzata di alcuni poeti italiani mediamente blasonati alla notizia dell’assegnazione nel 2016 del Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Negli ultimi decenni, tuttavia, i contorni di questi due universi in apparenza paralleli sembrano molto più sfumati.
A varcare esplicitamente i confini, per esempio, è stato Tommaso Ottonieri, un poeta di solide frequentazioni accademiche, che nel 1999 – quasi a voler chiudere canticchiando i conti con un secolo e un millennio – pubblica una raccolta di versi dal titolo Elegia Sanremese, in una collana di poesia curata da Aldo Nove, che purtroppo non proseguì oltre i primi titoli. L’operazione è in buona parte ironica e provocatoria perché i testi poetici sono delle riscritture, se non delle vere e proprie ‘cover’, di alcuni tra i maggiori successi storici della canzone italiana, passati dal palco di Sanremo. Manlio Sgalambro, forte probabilmente del suo sodalizio con Battiato, in prefazione alla raccolta, parla del “testo di canzone come poesia decaduta”.
Sarà l’anno 2007, però, a segnare una prova di riconciliazione tra i poeti e il mondo della canzone, anche se alla fine si trattava soltanto di una tregua apparente. Nella 57esima edizione del festival – sotto la direzione artistica di Pippo Baudo – Alda Merini, già da tempo per certi versi un’icona pop, scrisse infatti il testo di una canzone d’amore per Giovanni Nuti, dal titolo effettivamente molto meriniano, Sull’orlo della grandezza. Che però fu esclusa, contro tutte le previsioni, dalla competizione. Un piccolo caso che non mancò di trascinarsi la sua inevitabile coda di polemiche.
Persino l’incorruttibile Edoardo Sanguineti, collaboratore e sodale di un compositore ‘colto’ come Luciano Berio, non è riuscito a sfuggire alla tentazione di scrivere il testo di Habanero: una canzone per quella stessa edizione di Sanremo, interpretata da Ottavia Fusco e musicata da Andrea Liberovici, immancabilmente bocciata come quella di Merini.
I versi di una poesia e quelli di una canzone, insomma, nonostante continuino a farsi spesso il verso a vicenda, sembrano destinati ancora a muoversi su territori paralleli e a contaminarsi con una certa imprescindibile circospezione.