A distanza di quattro anni dalla precedente raccolta, esce il secondo volume di Tetralogia del dissenno (Editoria & Spettacolo, 2024, euro 16) che, come il titolo stesso indica, raccoglie altri quattro testi teatrali di Rino Marino – Lunario, La consegna, Fiele, La Verma – scritti tra il 2007 e il 2019 e non ancora messi in scena. Il libro, curato anche in questo caso dalla fedelissima Vincenza Di Vita, contiene una corposa e dettagliata prefazione di Filippa Ilardo, ricca di rimandi letterari, in cui si parla di “teatro tragicomico, dolce e amaro, un teatro che sprofonda, si sbalestra, si perde e si avviluppa, ma è retto da una rete simbolica di senso che ne fa un universo simbolico coerentissimo”.
I personaggi del teatro di Rino Marino, infatti, rimangono fortemente agitati da quella follia che l’autore conosce e studia da anni nel suo ‘secondo mestiere’ di psichiatra. Anche in questi testi, il drammaturgo e regista castelvetranese attraversa letteralmente la follia come vicenda clinica: i protagonisti sono sempre strambi, lunatici, irregolari, segnati da una sofferenza che spesso sconfina nell’assurdo: sofferenza che, pur rimanendo palpabile e ‘umanissima’, non ha nulla di esibito, di retorico o di facilmente pietistico. Una dimensione assurda, tuttavia, che sembra custodire una saggezza nascosta e imprevedibile, forse una logica imperscrutabile da scemo del villaggio che a volte sembra ricordare la figura di Giufà. A differenza del primo volume in cui tre dei quattro testi sono scritti nel dialetto arcaico di area castelvetranese, qui l’unico testo dialettale è La Verma, ma il teatro di Marino si conferma quanto di più lontano dalla dimensione ammiccante di molta drammaturgia contemporanea che spesso fa un uso adulatorio, per non dire letteralmente ruffiano, del dialetto sia sul registro comico che su quello patetico.
Il dialetto utilizzato in tutta la sua pienezza di sfumature ‘barocche’, tanto con una precisione quasi filologica quanto in modalità creativa e straniante, diventa al contrario una lingua ‘straniera’, cinica, che assume a volte la grazia e la cadenza musicale dell’endecasillabo – mai però per cullare lo spettatore, semmai per disorientarlo, spesso per sconcertarlo, per condurlo verso l’inesorabile, il tragico, l’indicibile, l’irriconoscibile. Anche quando si ride o ci si commuove, non c’è nessuna concessione al racconto edificante, al lieto fine. I personaggi non rinsaviscono, in quanto “residui di un’umanità malata” (definizione testuale dell’Autore), e gestiscono sempre sul palco situazioni tendenzialmente claustrali: un cameratismo fatto di piccoli gesti, immobilità silenziose, parole che pesano come macigni. Ovviamente è un teatro che evoca scenari beckettiani, anche se il beckettismo di Marino è soltanto presunto o incidentale. Quello di Rino Marino, in fin dei conti, è dissennato anche perché ‘inattuale’, tutt’altro che didascalico, in cui l’azione scenica sospende quasi la nozione di tempo cronologico.