“Si dice: “Quel politico era vicino a un mafioso”, “Quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti all’organizzazione mafiosa, però la magistratura non l’ha condannato quindi quel politico è un uomo onesto”. Eh, no. Questo discorso non va. Perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Può dire: “Be’, ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi ma io non ho la certezza giudiziaria che mi consente di dire: “quest’uomo è mafioso”. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri ordini, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali, dovrebbero trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato ma rendono comunque un politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica”.
Le parole sopra riportate sono un estratto di un celebre intervento di Paolo Borsellino, risalente al 1992. Lo stesso Paolo Borsellino che rappresenta forse l’eroe antimafia meno divisivo, quantomeno da morto. Perchè se da vivo Borsellino, suo malgrado, indusse a Leonardo Sciascia a scrivere un celebre articolo (“I professionisti dell’antimafia”) che spaccò l’opinione pubblica nazionale, da morto è riuscito nel miracolo di mettere d’accordo destra e sinistra, forse ancora più di Giovanni Falcone. Eppure queste parole che qui torniamo a citare, continuano ad essere ignorate e tradite.
Da decenni si discute di come vengono raccolti i voti e selezionate le candidature nelle regioni del Sud Italia, ma – come i ricorsi storici – puntualmente tornano le inchieste su fenomeni di corruzione elettorale e inquinamento del consenso. In alcuni momenti, sembra che la politica e la società civile abbiano imparato la lezione e che siano pronte ad abbandonare i malcostumi del passato per abbracciare condotte finalmente rispettose della legalità e del dettato costituzionale. Ma poi tutto torna a confondersi.
Negli ultimi anni, in provincia di Trapani, sono stati condannati o indagati per reati molto gravi politici come Antonio D’Alì, Giovanni Lo Sciuto, Paolo Ruggirello e – appunto – Nino Papania. Non si può dire che non ci fossero dubbi sulle loro condotte o che una certa spregiudicatezza d’azione non lasciasse ipotizzare una potenziale permeabilità rispetto a contatti con la malavita trapanese. Eppure, finchè non sono finiti in manette, questi soggetti sono stati cercati e corteggiati per candidature e alleanze elettorali. Allo stesso modo, sono stati contattati per piccoli e grandi favori, sono stati trattati con ossequio dai loro cerchi magici (ma anche da stimati e insospettabili professionisti), che magari sognavano di vedersi affidare qualche piccola quota del loro potere.
Erano considerati affidabili per la gestione della cosa pubblica? Probabilmente no, per lo meno da chi intende la cosa pubblica come gestione del bene comune o dell’interesse generale. Erano però considerati affidabili per la gestione delle faccende private. Che, agli occhi di tanti siciliani, contano molto di più. Se poi la sanità e i treni non funzionano, i porti o le bretelle autostradali non si realizzano, l’acqua sta per finire e i giovani scappano verso il Nord, poco importa. Si potrà sempre dare la colpa a qualcuno – i Savoia, l’Europa o i migranti – dimenticando le responsabilità individuali e collettive che hanno prodotto il contesto politico attuale, che non è molto diverso da quello di cui parlava – 32 anni fa – Paolo Borsellino.
Un contesto in cui sembra che non possa nascere una coalizione di governo o un’alleanza elettorale senza personaggi come Papania (o i suoi tanti epigoni), affidabili solo agli occhi di chi vuole che le cose non cambino mai.