Sono accadute tante cose negli ultimi 32 anni in Italia. Si sono alternati al Quirinale 4 Presidenti della Repubblica e a Palazzo Chigi 13 Presidenti del Consiglio. Abbiamo salutato la lira per entrare all’interno dell’unione monetaria europea, abbiamo affrontato nuovi conflitti e una pandemia, sono stati arrestati i principali boss mafiosi da tempo latitanti, la Fiat è diventata una multinazionale con sede in Francia, gli uffici pubblici hanno smesso (quasi del tutto) di utilizzare i fax, sono state istituzionalizzate le unioni civili, è stato riformato il settore scolastico e universitario, Dario Fo e Giorgio Parisi hanno vinto il premio Nobel, Roberto Benigni e Paolo Sorrentino hanno vinto l’Oscar, la nostra Nazionale di calcio ha vinto un campionato d’Europa e un Mondiale.
Tante altre cose, purtroppo, non sono accadute. Soprattutto, non abbiamo avuto modo di conoscere la verità su tante storie che costituiscono il libro nero della nostra Repubblica. Un libro ricco di pagine, ma in cui si fa fatica a orientarsi. Non abbiamo saputo che fine hanno fatto Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, permangono molti dubbi sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, così come sulle morti di Enrico Mattei, Pierpaolo Pasolini, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Piersanti Mattarella, Rocco Chinnici, Mauro Rostagno, così come sulla Strage di Ustica o su quella di Capaci. Poi c’è via D’Amelio, di cui proprio oggi ricorre il 32° anniversario. E qui non parliamo soltanto di verità mancante, ma anche di quello che è stato definito come “il più grande depistaggio” della storia italiana.
Nonostante gli apparati dello Stato abbiano fatto di tutto per autoassolversi, chi ha seguito, letto, ascoltato le testimonianze e le ricostruzioni di quella stagione non può avere dubbi sulle responsabilità di alcuni pezzi importanti della nostra Repubblica nel creare le condizioni per la morte di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina). La memoria di questi servitori dello Stato, sacrificati sull’altare di indicibili interessi, non può restare un semplice ricordo da conservare con amarezza nei cuori di chi quella stagione l’ha vissuta, o un esempio da tramandare alle nuove generazioni, nell’auspicio che facciano meglio di chi le ha precedute. A un sistema che ha fatto di tutto per alimentare resa e rassegnazione, oltre che per dividere e screditare il fronte dell’antimafia, occorre contrapporre una rinnovata (e, per certi versi, feroce) determinazione nella richiesta di verità su questa e su tutte le altre pagine nere della nostra storia nazionale. Altrimenti saremo condannati a restare il Paese dei misteri, in cui l’accesso alla verità continuerà ad essere un privilegio per pochi e agli altri non rimarrà che la memoria di una storia sbagliata.