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La lunga caccia al boss, tra misteri e depistaggi

Trent’anni di latitanza, di depistaggi e misteri. Sembrava dovesse non finire mai la caccia a Matteo Messina Denaro, il boss castelvetranese che si vantava di aver ucciso tante persone da poter riempire un cimitero. Erede della cupola corleonese che insaguinò la Sicilia tra gli anni ’80 e gli anni ’90, era considerato l’ultimo grande latitante in libertà dopo gli arresti di Totò Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.

Ufficialmente era il capo mandamento di Castelvetrano, come lo era stato il padre Francesco, capace di morire da latitante, continuando a sfuggire all’arresto fino alla morte, avvenuta per cause naturali il 30 novembre del 1998.

Verosimilmente, il 60enne Matteo Messina Denaro ambiva alla stessa sorte del padre. A differenza di don Ciccio, però, la sua influenza arriva ben al di là dei confini castelvetranesi. Dalle ultime relazioni della Commissione Antimafia emerge infatti un controllo capillare del territorio trapanese e, soprattutto, degli affari più remunerativi per Cosa Nostra, gestiti attraverso una sfilza di prestanome e una vasta rete di sodali e fiancheggiatori. “Nonostante la latitanza – si legge nell’ultima relazione della Commissione Antimafia – Matteo Messina Denaro resterebbe la figura di riferimento per tutte le questioni di maggiore interesse dell’organizzazione, per la risoluzione di eventuali controversie in seno alla consorteria e per la nomina dei vertici delle articolazioni mafiose anche non trapanesi”.

L’ultima condanna risale al 20 ottobre del 2020, quando la Corte di Appello di Caltanissetta decretò nei suoi confronti un ulteriore ergastolo, ritenendolo tra i mandanti delle Stragi di Capaci e via D’Amelio. La prima denuncia per associazione mafiosa, risale invece al 1989, quattro anni prima dell’inizio della latitanza. In mezzo, gli anni in cui i corleonesi alzarono ulteriormente il tiro nella loro guerra allo Stato. Messina Denaro fu inviato a Roma da Totò Riina per compiere appostamenti allo scopo di programmare una serie di attentati, nei confronti del giornalista Maurizio Costanzo, del Ministro Claudio Martelli e del magistrato Giovanni Falcone, in quel periodo trasferitosi nella Capitale. Di lì a poco, però, si decise di uccidere Falcone in Sicilia, come effettivamente avvenne il 24 maggio del 1992, lungo il tratto di autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi e la città di Palermo. E’ inoltre accertato che fece parte del gruppo di fuoco che partecipò al fallito attentato all’ex capo della squadra mobile di Trapani, Calogero Germanà.

Il 15 gennaio del 1993 l’arresto di Totò Riina privò la cupola di Cosa Nostra del suo capo indiscusso, mentre per assicurare alla giustizia Bernardo Provenzano bisognò attendere la primavera del 2006. Su Messina Denaro tante storie su potenziali avvistamenti e persino un carteggio con l’ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, seguito con attenzione dai servizi segreti prima che il boss si rendesse conto della “trappola”, ponendo fine alla corrispondenza (integralmente riportata all’interno del libro “Lettere a Svetonio”, curata dall’autore trapanese Salvatore Mugno).

Dopo l’arresto della sorella Patrizia nell’ambito dell’operazione “Eden”, avvenuta il 13 dicembre del 2013, sembrava che il cerchio attorno a Matteo Messina Denaro potesse stringersi definitivamente, fino all’arresto. Ci sono voluti, invece, altri 9 anni per porre fine a questa lunga latitanza, protrattasi nel tempo a causa di qualche errore investigativo, ma anche per evidenti connivenze con pezzi dello Stato su cui, ora più che mai, diventa prioritario fare luce.

Vincenzo Figlioli

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Tags: Matteo Messina Denaro