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La Cucina italiana non è la Cucina italiana?

Qualche giorno fa, il commento polemico – e vagamente risentito – di un lettore mi ha spinto a ritornare a riflettere sul tema del “sapere” nel nostro tempo: grande campo in cui si incrociano, tra le altre cose, condivisione e conoscenza, diritto all’espressione e competenza, fluidità e solidità.

La vorrei prendere larga. C’è un libro, di eccezionale qualità, che Guglielmo Scaramellini ha scritto qualche anno fa: Mangia come parli! Alimentazione e cucina italiana: geografie e storie di un mito gastronomico. Attraverso un lungo e documentatissimo excursus, il geografo analizza la possibile sovrapposizione fra “gastronomia” e “identità collettiva”. Alla fine – digerita l’idea di Massimo Montanari che la “tradizione” non sia altro che “innovazione ben riuscita” – arriva a suggerire che la sequenza deduttiva cucina italiana>identità italiana possa godere di una lettura a senso inverso. Mi spiego: fino al tardo ‘800, e soprattutto fino ai processi di massificazione del secondo ‘900, non è mai realmente esistita una “cucina italiana”. Sono esistite le ramificazioni, le tendenze locali, le specificità settoriali: tutte in seria difficoltà già se proiettate sulla dimensione regionale. Figuriamoci sul nazionale.

Un’idea di “cucina italiana” nascerebbe piuttosto dal discorso sull’identità italiana, dalla domanda sulla possibile delimitazione “culinaria” del “carattere degli italiani”. Il famoso Artusi, 1891, in tal senso, è il primo a articolare gastronomicamente un discorso cultural-politico a aspirazione identitaria.

La rete dei dibattiti sulla natura di un piatto, sull’originalità di un piatto o sulla sua scopiazzatura, insieme ai vastissimi filamenti intrecciati dalle pratiche del consumo, dello scambio, della degustazione, del turismo eno-gastronomico, hanno poi costituito un’importante parte del tessuto su cui poggia – ora, e al di là del folklorismo o del campanilismo – la configurazione condivisa di “italianità”. Appunto, Guerini, nel 2002, aveva decomposto il concetto di cui sopra in sequenze di associazioni mentali, sensoriali, emotive. Sguardo internazionale. In due su tre il cibo campeggia centralissimo (a. Sensoriali: arte, cultura, cibo, moda, automobili; b. Emotive: vacanze, bel tempo, buon cibo, amicizie, bellezza). In sostanza, la cucina è divenuta sottotesto “poco” problematico – dato generalmente per buono – del più ampio pensiero sull’ “essere italiani”.

Ora, questo tessuto, questo sottotesto, è osservabile come la superficie di quel “tavolo” – complesso e stratificato – che Foucault ha chiamato Episteme. Si tratta di quel piano di appoggio, fatto di idee, tradizioni, istituzioni, pratiche, ricco di venature, gobbe e scheggiature su cui poggiano i nostri pensieri.

Per rimanere in tema, secondo questa prospettiva, le nostre idee e i nostri pensieri, possono essere immaginati come plastiche gelatine: si adattano al pianale, ne accolgono con mobilità le curve e le increspature. Assorbono da ciò che sta intorno e odori e sapori.

Va sottolineato: la maggior parte della comunicazione, attraverso tutti i media, tende a considerare molto le gelatine e molto poco il vassoio. Per questo creazioni artificiali e inconsistenti come quelle della “dieta mediterranea” possono reggere a lungo. E per questo, quando le mitizzazioni degli “spaghetti al pomodoro” o della “carbonara” vengono strappate al cabarè, ribaltate e mostrate in contrappunto al “tavolo”, si infiammano i dibattiti e le indagini.

Post e commenti sui Social Network tendono, in particolare, a soffrire la destabilizzazione dei giudizi morali conclamati e delle narrazioni stabili. È anche per questo che una certa parte di operatori culturali italiani, orientati a Destra ma non solo, ha inventato lo sciocco demone del “pensiero unico”.

Non appena qualcuno si provi, ad esempio come Capatti, De Bernardi e Varni, a ricordare su Facebook che la “pasta”, in qualità di oggetto/simbolo peninsulare, è un’invenzione solo recente e non rappresentativa, può sollevare più di una critica.

Chi andrà a dire, in certi rissosi rioni “digitali” d’Italia, che la pronuncia della parola “pizza” che ad oggi tutto il mondo usa potrebbe essere una deformazione longobarda – germanica, nordica – dell’antichissima – medio orientale –  pita?

Sebastiano Bertini

Lo Scavalco è una scorciatoia, un passaggio corsaro, una via di fuga. È una rubrica che guarda dietro alle immagini e dietro alle parole, che cerca di far risuonare i pensieri che non sappiamo di pensare.

Sebastiano Bertini è docente e studioso. Nel suo percorso si è occupato di letteratura e filosofia e dai loro intrecci nella cultura contemporanea. È un impegnato ambientalista. Il suo più recente lavoro è Nel paese dei ciechi. Geografia filosofica dell’Occidente contemporaneo, Mimesis, Milano 2021. https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857580340

Sebastiano Bertini

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