Sono passati trent’anni da quel 23 maggio del 1992. Un sabato pomeriggio di primavera, destinato a sconvolgere un intero Paese e a segnare un profondo spartiacque nella vita di tanti italiani. C’è chi era fuori casa e chi si stava preparando per uscire, chi percorreva l’autostrada e chi, magari, giocava spensierato. Bambini e adulti, giovani e anziani, donne e uomini: intorno alle 18 l’Italia si fermò ed è come se tutti si fossero sintonizzati su un’unica stazione che con parole concitate cercava di spiegare cos’era appena accaduto sull’A29, nei pressi dello svincolo di Capaci. Sono giornate come queste in cui la Storia ci attraversa, senza bussare alla porta dei nostri pensieri, senza alcun preavviso. Si presenta spavalda a dirci che ci sarà sempre un tempo in cui le nostre coscienze dovranno fare i conti con lei, abbandonando il nostro individualismo nel nome di un senso di comunità che per troppo tempo abbiamo trascurato.
E’ vero, c’è chi esultava e chi stappava lo spumante di fronte alle immagini trasmesse dalla tv, al cratere che si era aperto lungo l’autostrada, alle lamiere contorte delle auto blindate. E se Giovanni Falcone era l’obiettivo principale, il nemico giurato che aveva mandato la mafia alla sbarra nel maxi processo decapitandone i vertici, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani erano considerati semplici danni collaterali, sciagurata definizione che viene per lo più utilizzata in guerra di fronte alle vittime civili che pagano con la vita l’essersi ritrovate vicine agli obiettivi militari.
Tuttavia – mafiosi esclusi – l’Italia si strinse intorno a un unico abbraccio in quei giorni, così come avvenne 57 giorni dopo, il 19 luglio, con la Strage di via D’Amelio. E in tanti promisero a se stessi di continuare far camminare sulle proprie gambe le idee di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Che poi, non significa soltanto dire o scrivere che la mafia ci fa schifo, ma coltivare la memoria in coerenza con le nostre scelte individuali, familiari, professionali: rispettare le leggi (senza rinunciare a contestare quelle che riteniamo ingiuste); rinunciare alle raccomandazioni, rifiutare il clientelismo, scegliere con cura i politici e gli amministratori a cui possiamo dare la nostra fiducia anteponendo il bene comune al vantaggio personale; non abbandonare mai l’idea che possiamo contribuire a cambiare un sistema che non ci piace.
A distanza di 30 anni, non saprei dire se l’Italia di oggi è migliore di quella del 1992. Certo, non saltano più in aria giudici e auto blindate, ma Matteo Messina Denaro è ancora latitante (con evidenti complicità istituzionali) e la liberazione dalla mafia è un processo che non si è mai completato, con il paradosso che proprio negli anni in cui ha smesso di sparare la criminalità si è arricchita maggiormente, cambiando struttura organizzativa, modalità di azione e capacità di penetrazione all’interno del tessuto sociale ed economico del nostro Paese, inseguendo affari e interessi con il cinismo di sempre. La “primavera” dei primi anni ’90 ha lasciato spazio ha una progressiva restaurazione, nel nome di un presunto ritorno alla normalità che ha riportato il Sud Italia alle difficoltà di sempre, certificate da un tasso di disoccupazione tra i più alti d’Europa e da una migrazione sempre più massiccia dei giovani verso il Nord o i Paesi esteri. Chi resta porta avanti le proprie attività e i suoi progetti con forza e tenacia ammirevoli o, viceversa, si arrende e cede a un sistema che si preoccupa solo della propria autoconservazione, come dimostrano i recenti ritorni in scena di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, due tra i politici che maggiormente hanno rappresentato il potere in Sicilia nella stagione immediatamente successiva alle Stragi e che ancora adesso vengono considerati autorevoli interlocutori politici nonostante le condanne emesse nei loro riguardi.
E proprio in questi giorni, in cui la memoria sembra riproporre quel lungo e intenso abbraccio collettivo di 30 anni fa, si consolida il rimpianto per le promesse non mantenute, le occasioni mancate, le aspettative tradite. Potevamo essere un grande Paese, ci siamo accontentati di assumerne le sembianze solo sporadicamente, per poi riporre le bandiera dell’impegno civile e della coscienza antimafia nel cassetto dei vestiti d’ordinanza, da utilizzare per le feste comandate.
Lucido, verticale e appassionato come sempre! non cambierei una virgola. grazie Vincenzo
Gianvito Pipitone