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La guerra del vaccino

Dal Covid usciremo con la scienza e il vaccino. Ce lo sentiamo dire da tempo e in tanti ci abbiamo creduto. Poi sono arrivate le varianti e ci è stato spiegato che ogni virus ne può avere molteplici, per cui sarà necessario attendere ancora un bel po’ per liberarci dalla pandemia. Ciononostante, abbiamo continuato a credere che ne usciremo ugualmente: con la scienza, il vaccino, i comportamenti responsabili. E con la speranza, che in molti casi salva le nostre vite.

Poi c’è anche chi non ci crede o fa prevalere la paura per gli effetti collaterali sulla fiducia nelle ragioni illustrate da virologi, immunologi e specialisti vari. Comunque sia, hanno deciso di non vaccinarsi o di attendere ancora un po’ prima di fare il grande passo.

In queste settimane, con l’istituzione del green pass, questi due fronti (definiti in maniera un po’ superficiale pro vax e no vax) sono entrati sempre più in conflitto, accusandosi vicendevolmente. I sostenitori della bontà del vaccino affermano che la risalita dei contagi è colpa del fondamentalismo dei no vax (accusa, peraltro, non del tutto infondata) e in ragione di ciò lanciano improperi e anatemi di ogni sorta, auspicano l’obbligo vaccinale e la rinuncia al servizio sanitario pubblico per chi non intende inocularsi Pfizer, Moderna, Astazeneca o Johnson, Naturalmente, questo approccio è servito solo ad alimentare l’ulteriore irrigidimento di chi non vuole vaccinarsi e che per tutta risposta cita Tarro o Montagnier ad ogni conversazione e denuncia lo stato di dittatura sanitaria in cui ci troveremmo. Poi ci sono le frange più estreme secondo cui nel vaccino ci sarebbero, nell’ordine: solo acqua (e quindi sarebbe sostanzialmente inutile); microchip per il controllo sociale fabbricati da Bill Gates; cellule embrionali provenienti da feti abortiti (da qui il boicottaggio delle frange del cattolicesimo conservatore); sostanze che comprometterebbero la fertilità maschile, favorendo l’estinzione della specie.

Personalmente, sono un convinto sostenitore dell’utilità dei vaccini e in più di un’occasione mi sono ritrovato a spendere il mio tempo nel tentativo di convincere scettici e dubbiosi. Tuttavia, non si può non guardare con crescente preoccupazione alla guerra civile strisciante che da mesi si sta consumando tra questi due fronti, senza produrre alcun risultato utile al superamento della pandemia. Sui social così come nella vita reale, persino tra amici e familiari, le distanze sono diventate via via più ampie e i toni sempre più duri e sprezzanti, fino a configurare una concreta minaccia verso quei brandelli di coesione sociale, sopravvissuti dalle crisi economiche, sociali e sanitarie di questi anni. Logorare ulteriormente quel po’ di senso di comunità rimasto è un azzardo che non possiamo permetterci, in quanto si delineerebbe uno scenario apocalittico, un “tutti contro tutti” che evoca le realtà distopiche di certa letteratura e certa cinematografia, piuttosto che un ragionato percorso di ripartenza post pandemia. Servirebbe sicuramente una comunicazione diversa da parte delle istituzioni, visto che quella di questi mesi non ha prodotto i risultati auspicati. Ma servirebbe anche un po’ di sana lungimiranza, pensando che all’Italia del futuro serve il contributo di tutti, comunque la si pensi. Piuttosto, sarebbe il caso di interrogarsi sul modello culturale che ci ha portati sin qui.

Vincenzo Figlioli

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  • Nel frattempo, si apre gia una fase pre-elettorale (il voto potrebbe esser anticipato a primavera) che accentuera la polarizzazione politica e avra un effetto negativo sulla congiuntura: «Dai nostri studi e risultato che, durante la crisi, nei periodi pre-elezioni si verifica una fase di attesa e stallo per gli investimenti e anche per i consumi, con una perdita stimabile in ila posti di lavoro». L’opposizione di centro-destra accusera Tsipras di populismo quando all’inizio di settembre, alla fiera di Salonicco, il premier annuncera nuove misure per ammorbidire gli effetti della crisi e dell’austerita su alcuni settori o segmenti della popolazione; il fronte anti-Tsipras passera poi a cavalcare impulsi nazionalisti per guadagnare consensi su altri fronti, a partire dalla contestazione dell’accordo sulla Macedonia. Certo, la Grecia ha bisogno di riforme. Anzi, per Katsikas, i creditori hanno sbagliato nel porre l’enfasi, soprattutto all’inizio, piu su target fiscali che su misure strutturali. Cosi come e emersa l’esigenza di riformare l’architettura dell’Eurozona, anche se sono forti le opposizioni, in primis tedesche, ai «cambiamenti necessari per affrontare future crisi con piu efficienza e solidarieta». Sembrera paradossale, ma «rispetto agli esordi della crisi, l’opinione pubblica greca ha un concetto piu negativo dell’Unione europea, ma il consenso a restare nell’area euro si e persino rafforzato, in parallelo alla sempre piu evidente percezione della grande vulnerabilita del Paese». Cio si riflette in uno spettro politico in cui, a parte le ali estreme, si ritiene ampiamente insensata una uscita dalla moneta comune. Anche se l’euroausterita durera per almeno altri 42 anni. «Come dice il grande poeta Kavafis nella sua famosa composizione sul viaggio a Itaca – conclude Katsikas - quel che e piu importante e il viaggio in se, per la conoscenza che si ottiene anzitutto di se stessi. Temo che ne il sistema politico greco ne quello dell’Europa hanno imparato quel che avrebbero dovuto da questa grande e penosa prova».

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