A oltre un anno dall’inizio della pandemia c’è un dato ormai certo, su cui apocalittici e integrati si trovano ormai d’accordo: non ci renderà migliori. E, soprattutto, non renderà migliori i nostri politici. L’adattamento e i sacrifici che sono stati chiesti alle famiglie, ai lavoratori o alle imprese di fronte all’emergenza epidemiologica non vale infatti per la classe dirigente del nostro Paese, che da Nord a Sud ha dato numerose dimostrazioni di inadeguatezza di fronte alla richiesta di serietà che la situazione generale avrebbe meritato. Per restare alla nostra Sicilia, in meno di un anno ci ritroviamo con importanti dirigenti nel settore della sanità pubblica (Candela, Damiani e adesso Di Liberti) in arresto con accuse di reato infamanti, che si configurano come l’ennesimo tradimento di quel sacro patto che dovrebbe legare la pubblica amministrazione alla comunità di riferimento. E con un assessore alla salute (da ieri dimissionario) sfiorato dai sospetti nell’inchiesta “Sorella sanità” e adesso raggiunto da un avviso di garanzia nell’ambito delle indagini sulla falsificazione dei dati Covid in Sicilia.
La sensazione è che in mezzo sia successo anche qualcos’altro, a partire dalla vicenda (mai chiarita) della riqualificazione del vecchio ospedale San Biagio a Marsala, annunciata a maggio e poi accantonata senza tante spiegazioni per lasciare spazio all’auspicata realizzazione di un nuovo padiglione dedicato alle malattie infettive al “Paolo Borsellino”. Ma la Sicilia è grande e i professionisti delle emergenze sono sempre vigili quando ci sono nuove risorse a cui attingere. Il tempo e la storia ci diranno come sono andate le cose e se tra un business e un altro non si sia infilata anche la mafia. Ma questa è un’altra storia…
Nella vicenda esplosa ieri c’è però anche un altro aspetto, a mio avviso non meno importante, quello relativo a un valore tanto caro a noi siciliani, di fronte a cui nella nostra amata isola si consumano quotidianamente prese di posizione e dissertazioni di principio capaci di assurgere al rango di questioni di Stato: il rispetto. Un valore che viene meno nei fatti, allorchè si ritiene che la tenuta del consenso politico sia più importante dei principi di verità e trasparenza dovuti alla popolazione, ma anche nelle parole. Dietro i numeri dei decessi, che ogni giorno abbiamo elencato con doveroso rispetto anche sul nostro giornale, ci sono vite umane, storie familiari, legami spezzati, che non possono essere liquidati con superficialità e cinismo come abbiamo purtroppo letto tra le carte dell’inchiesta.
Moltiplicare i tamponi per alterare l’indice di positività e scansare la zona rossa o parlare di “morti da spalmare” a fronte di 7 persone che hanno perso la vita a causa del Covid, senza il conforto dei propri cari, significa aver capito ben poco di quello che è successo nel mondo in quest’ultimo anno e delle sofferenze che milioni di famiglie hanno vissuto. Ma la sensazione è che il problema non sia rappresentato solo da Razza o dalla dirigente Di Liberti, se pensiamo anche al recente e colorito sfogo del presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè sulla vaccinazione prioritaria dei deputati regionali (“ammazzerei qualcuno”). C’è una distanza tra Paese reale e Paese legale che nemmeno la pandemia è riuscita a ridurre e questa consapevolezza rappresenta, purtroppo, una delle più amare eredità che questi anni difficili ci stanno consegnando.