Se è vero che molti di noi pensano che il 2020 sia stato un anno orribile, immaginate cosa dev’essere stato per Daniele Mondello. Ho sempre pensato che perdere in un colpo solo la propria compagna e il figlio sia quanto di peggio possa accadere a un uomo. Non riesco a immaginare un dolore più grande, nel caso specifico reso ancora più atroce dalle circostanze in cui è maturato: la scomparsa improvvisa, le prime ricerche senza esito, il ritrovamento del corpo senza vita di Viviana, devastato dalla furia degli animali del bosco. E poi, ancora, le ulteriori ricerche che grazie all’intervento dei volontari chiamati a raccolta da papà Daniele hanno condotto, dopo diversi giorni, ai resti del piccolo Gioele.
Anche il meno sensibile tra i lettori o degli spettatori televisivi, per qualche istante avrà immaginato di trovarsi al posto di questo giovane uomo cui è improvvisamente caduto il mondo addosso. Idealmente, magari, avrà anche immaginato di abbracciarlo in un tentativo di consolazione pressochè impossibile. Come molti, anch’io in questi giorni ho visitato la pagina facebook di Daniele Mondello. Tra le foto pubblicate, mi ha colpito in particolare quella in cui Gioele indossa una maglietta blu che ha anche mio figlio, quattro anni come lui. Mi sono immediatamente ritrovato a immaginare i loro giorni felici, molto simili ai nostri: l’attesa, il parto, lo svezzamento, i primi passi, le prime parole, i viaggi in macchina, la scoperta della musica, i libri da leggere e rileggere fino allo sfinimento. E anche le notti insonni, i risvegli improvvisi, le ansie per le febbri stagionali, e tutti quei momenti di inquietudine che fanno pensare a un genitore che avere dei figli sia la cosa più bella e faticosa che possa succedere a un essere umano. C’è una vita prima e una dopo, che hanno davvero pochi punti in comune: e anche se talvolta ci si vorrebbe riappropriare di una certa spensieratezza non c’è mai un istante in cui si vorrebbe tornare indietro. Piuttosto, si tende a guardare avanti, immaginando di accompagnare i figli finchè si potrà, con l’auspicio di poter essere testimoni della loro felicità futura e di sapere che i loro occhi saranno gli ultimi che ci guarderanno quando andremo all’altro mondo. Perchè è questo l’ordine naturale delle cose. Non è naturale, invece, che un padre partecipi al funerale di un figlio, a maggior ragione di quattro anni.
E’ in momenti come questo che ci si sente davvero comunità e ci si ritrova a pensare a quanto sia fondato quel vecchio detto africano, secondo cui “ci vuole un intero villaggio per allevare un bambino”. E, allora, sarebbe davvero il caso di chiedersi se le istituzioni sono davvero un punto di riferimento per le famiglie che si ritrovano ad affrontare ciclicamente crisi economiche, emergenze epidemiologiche e problemi di ogni sorta. Se i consultori sanno dare risposte alle ragazze madri, se ci sono i fondi per dare continuità ai progetti di sostegno sociale, agli sportelli di ascolto e a tutto ciò che ruota attorno al mondo del disagio. Se esiste uno strumento del welfare per supportare un uomo che ha perso in un colpo solo gli affetti più cari. Viceversa, ci ritroveremmo a pensare che viviamo all’interno di un modello sociale che, in fin dei conti, va bene solo per i più fortunati, riservando a tutti gli altri, nel migliore dei casi, solo qualche messaggio di conforto e solidarietà. Ma per essere davvero un villaggio, servirebbe molto di più.