“I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”, scrive Camus ne “La peste”.
C’è stato un momento, a cavallo del 9 marzo, che non sapevamo come comportarci. Se accettare l’invito all’abbraccio che un amico o un parente ci faceva oppure rifiutarlo. E spesso, se non quasi sempre, cedevamo. Con uno svolazzo della mano cacciavamo i brutti pensieri, i cattivi presentimenti, i buoni consigli, come rimandandoli ad un secondo momento e ci facevamo abbracciare.
Di fronte ad informazioni certe ma date con titubanza, di fronte al richiamo alla responsabilità individuale, ci siamo sentiti confusi. Eravamo in un limbo in cui dipendeva da noi il tipo di profilassi da adottare: distanza si, distanza no, mascherina si, mascherina no, guanti si, guanti no, posti affollati si, posti affollati no.
Ci siamo domandati se fosse più intelligente continuare a comportarci come sempre: abbracciarci, baciarci, andare al bar, fare entrare le nuove regole di distanziamento sociale pian piano nella nostra quotidianità, pretendere – prima di farlo – di avere la certezza che la faccenda ci riguardasse in prima persona. L’attesa appare sempre più dignitosa, e in quanto più ordinata, sembra più razionale, di quella razionalità propria di chi attende di avere il quadro chiaro per farsi una idea propria di ciò che accade e non si appiattisce subito sulle idee correnti. Oppure iniziare da subito: dall’oggi al domani rifiutare gli inviti, mettere la mascherina, dire di “no, meglio evitare” a chi si avvicinava allungando la mano per stringercela in un saluto, rischiando di apparire esagerati, gente pronta ad entrare nel panico al primo allarme, senza avere un’informazione completa, ma aspettando che i fatti premino la nostra prudenza – scommettere sulla paura, adottare le contromisure prima degli altri, anticipare i tempi, intercettare il problema ancora prima che il quadro si sia schiarito, farsi trovare pronti, reattivi, anche questa è una forma di intelligenza che ci viene richiesta, a maggior ragione in un’epoca come la nostra, nella quale le cose cambiano velocemente e viene chiesta capacità di adattamento.
E stranamente entrambe le scelte apparivano razionali, positiviste, entrambe poggiavano su quell’infarinatura di pensiero scientifico che la scuola dell’obbligo ci ha lasciato in dono.
Noi pensavamo di vivere un tempo nuovo, che tecnica e scienza ci avessero regalato un mondo nuovo, liberato dai problemi di sempre. Un mondo che poteva permettersi di andare dritto senza fermarsi mai, concentrandosi solamente sul presente.
Ci siamo affidati ciecamente a scienza e tecnica perché liberassero il nostro presente dalle inquietudini.
E alla fine ci siamo arresi a quella che sembrava un’evidenza: se la scienza e la tecnica non hanno la soluzione, vuol dire che non ci sono soluzioni.
In contraccambio alla liberazione dalle inquietudini quotidiane abbiamo dovuto abbandonare la speranza. Che senso ha, infatti, la speranza, in un mondo che vive proiettato in un continuo presente, in un coatto “qui e ora” di risposte assertive e preconfezionate dalla tecnica e svincolate da qualunque idea di futuro?
È per questo che in questi anni ci siamo arresi all’ottusità di una burocrazia senza Stato, alla vergogna di un diritto senza Giustizia, all’iniquità di una finanza senza Economia, allo svuotamento di senso delle procedure proprie della Democrazia.
Di fronte alla necessità di cambiamenti, di creare nel presente che vivevamo le condizioni propizie per un ripensamento del futuro, ci siamo ritratti. Invece di ripensare la società, la polis, il mondo, abbiamo riconvertito i vari problemi che ci si paravano davanti – in ambito politico, giuridico, economico, sociale – in questioni di mera “ingegneria istituzionale”. Affidandoci di fatto ad una sorta di “modellistica astratta, commettendo tutti gli errori inevitabili quando non si è in grado di compiere una adeguata analisi […] della realtà sulla quale intervenire” ci diceva già nel 2013 Stefano Rodotà, datando questa perdita di capacità di analisi già dalla fine degli anni settanta.
Ci siamo lasciati guidare dai dati e dalle procedure, come se i dati e le procedure avessero qualcosa da dire a prescindere da noi.
Perché, come ci ricorda il latinista Ivano Dionigi, il sapere tecnologico capta il novum del presente, si iscrive nello spazio, ha familiarità con la vita intesa come zoé – “principio vitale” -semplifica la complessità, è abilitato alle risposte, rincorre i mezzi.
Lo scoppio della pandemia ha portato in evidenza tutto questo.
Qui eravamo di fronte ad un agente antico come il mondo, un virus, che agiva in un mondo che va veloce, alla velocità imposta dalla tecnica.
E con grande sorpresa abbiamo visto che anche gli esperti, gli scienziati, non avevano certezze, davano letture differenti, non avevano risposte. Che non basta dare un nome ad un flagello, censirlo, per debellarlo.
Anzi, abbiamo visto con stupore che il virus usa i progressi tecnici come vettore: le polveri sottili create dall’industria, i mezzi di trasporto – aerei, treni, navi – e la velocità con cui collegano tra loro le varie parti del mondo in un modo impensabile fino a cento anni fa.
Altro che mondo nuovo: il flagello ci aveva colti impreparati come sempre, nonostante si fosse manifestato in una modalità che più antica non si poteva, un virus.
Gli scienziati ci hanno detto: abbiamo bisogno di tempo: gli abbiamo dato un nome, sappiamo come agisce, abbiamo tutti i modelli pronti e sappiamo come si evolverà la curva dell’epidemia, ma non sappiamo come fermarlo.
Anzi, a fermarci dobbiamo essere noi.
Gli scienziati a bordo campo ci hanno fatto il segno della T con le mani: time out, pausa, quarantena.
La ricetta per risolvere il nuovo flagello era la stessa usata 500 anni fa, da popoli, i nostri antenati, che ritenevamo meno civili e consapevoli di vivere il mondo rispetto a noi.
Eppure questi nostri antenati, pur conoscendo infinitamente meno di noi, è come se sapessero di più. Lo avvertiamo ogni volta che apriamo i classici. E in questi giorni in cui il futuro ci appare incerto e pieno di incognite mi sono venute in mente dei versi della Bibbia. Ad un certo punto, nel deserto, un uomo grida: “Sentinella, a che punto è la notte?”
La sentinella risponde:
“Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare, interrogate pure; tornate un’altra volta” (Isaia, 21, 1-12).
Ecco di cosa erano capaci gli antichi. Queste righe di un libro antichissimo ma pieno di occasioni umane ci invitano, quando si fa notte ed è difficile scorgere l’orizzonte, a interrogare innanzitutto chi ne sa più di noi, ma di non accontentarci della prima risposta, di continuare ad esercitarci nella domanda, di riempire una procedura meccanica – domanda/risposta – della nostra intelligenza.
Ecco cosa abbiamo perduto da quando ci siamo affidati ciecamente alla tecnica e alla scienza: abbiamo perduto l’approccio umanistico. Tutto quel sapere umanistico che – torno a citare Ivano Dionigi – conosce il notum della storia, guarda avanti e indietro, adotta il paradigma cumulativo della memoria, si distende nel tempo, ha familiarità con la vita intesa come bios – “esistenza individuale” -, interpreta la complessità, abita le domande, esplora i fini.
E ne abbiamo sentito una mancanza vertiginosa in questi giorni di emergenza, quando siamo stati subissati da informazioni e ci siamo accorti di non saperle interpretare; e le risposte tardavano ad arrivare o non ci soddisfacevano. Quando ci siamo accorti che la burocrazia, le istituzioni, la Borsa continuavano a girare a vuoto come se nulla fosse successo, continuando a perpetuare le loro procedure in maniera meccanica, come se non fossero processi da riempire di intelligenza viva, umanità, umanesimo.
La pandemia sembra essere arrivata come l’ultima campanella, come l’ultimo invito da cogliere per cominciare a riempire di intelligenza umana, quell’intelligenza politica fatta di umanesimo, il nostro stare al mondo. Ce lo dice in modo chiaro il filosofo Giorgio Agamben, parlando proprio della pandemia che stiamo vivendo: “Secondo lo scienziato Ludwig Bolk, la specie umana è caratterizzata da una progressiva inibizione dei processi vitali naturali di adattamento all’ambiente, che vengono sostituti da una crescita ipertrofica di dispositivi tecnologici per adattare l’ambiente all’uomo. Quando questo processo sorpassa un certo limite, esso raggiunge un punto in cui diventa controproducente e si trasforma in autodistruzione della specie.”
Ecco a che punto è la notte. Dobbiamo interrogare le competenze, integrare il sapere tecnologico con l’umanesimo e cercare soluzioni condivise. Tornare a interrogare e tornare ancora, fino a quando non troveremo le risposte.