E poi, ad un certo punto dell’emergenza, oserei dire nel bel mezzo della quarantena, è arrivato il Papa.
E tutti, credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, laici e “ideologizzati” ci siamo fermati a vedere questo anziano signore vestito di bianco attraversare da solo, claudicante, sotto la pioggia, la piazza desolata di San Pietro.
E non è che in questi anni Papa Francesco non si fosse fatto sentire. Non è che anche nelle prime settimane dell’emergenza avesse lesinato parole di ammonimento, conforto e vicinanza.
Ora, però, ci aveva dato un appuntamento, un orario e un luogo. Aveva qualcosa da dirci, di specifico, sul tempo che stiamo attraversando. E ci siamo fermati tutti per ascoltare quello che aveva da dire.
“Venuta la sera. Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato” – ha iniziato il Papa, citando il Vangelo di Marco, per poi continuare – “Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite […] Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda”.
E ha toccato e fatto risuonare delle corde interne ad ognuno di noi, che, pur da diversi punti di vista, diversi percorsi, diverse biografie, abbiamo sentito di appartenere tutti ad un tempo, ad una comunità, ad una cultura.
Ma come mai, noi uomini secolarizzati, noi che prestiamo fede solo alle evidenze scientifiche, ci siamo fermati ad ascoltare questo vecchio signore vestito di bianco che parla di spiritualità appoggiandosi ad una cerimonia antica fatta di simboli, di cantilene e latino?
In questi anni avevamo chiesto fatti o opinioni. “Volevano fatti. Fatti. Gli chiedevano fatti, come se i fatti riuscissero a spiegare qualcosa”, scrive in “Cuore di tenebre”, Joseph Conrad. Ma oggi i fatti sono sempre più proiezioni dei sistemi di calcolo, dei software, degli algoritmi che guidano il web.
Ci eravamo convinti che la conoscenza fossero le informazioni, i fatti e le opinioni a portata di click, link da scambiare. Abbiamo pensato che non bisognasse studiare o approfondire. Abbiamo confuso il sapere con le nozioni reperibili sui motori di ricerca. E abbiamo cominciato a deridere i maestri, i professori, i medici, chi ne sapeva più di noi. Che bisogno avevamo di loro se tutto quello che ci dicevano era a portata di Google? Poi siamo arrivati a picchiarli, nei pronto soccorso, nelle classi, alla prima disattenzione e al primo voto basso dato ai nostri figli; e abbiamo messo i video in rete, per deriderli.
Ecco dove c’eravamo lasciati.
Come era bello poterci liberare da qualunque forma di intermediazione della conoscenza. Niente più voti, niente più giudizi, assoluta libertà e soprattutto autovalutazione.
Abbiamo delegato alla tecnica, agli algoritmi la sintesi di qualunque conoscenza.
Dopo la cultura, abbiamo creduto che fosse giusto farlo con la democrazia. Uno vale uno.
Internet ci ha abituati alla disintermediazione. Che bisogno c’è di seguire le procedure, di rispettare le gerarchie, di adeguarsi ai tempi delle cerimonie, che bisogno c’è dell’intermediario umano, quando basta inserire i dati, le informazioni, le nostre opinioni, i nostri like per ritrovarsi una soluzione bella e pronta come si fa con gli ingredienti nel “bimby”?
Chiedevamo fatti, come se i fatti riuscissero a spiegare qualcosa.
Con la pandemia, invece, abbiamo capito. Abbiamo capito che la conoscenza, il sapere, non sta nella somma dei fatti, delle nozioni, delle opinioni a portata di click, bensì nelle relazioni che li legano. E sono un tutt’uno con i processi che li formano.
Abbiamo capito che servono le competenze. Abbiamo capito che abbiamo bisogno di Maestri.
Lo abbiamo scoperto di fronte ai dati dei positivi, ai numeri dei guariti e dei morti, ai grafici e alle curve, al SIR, al MES, ai Dpcm. Lo abbiamo scoperto di fronte alle diverse opinioni dei virologi, degli immunologi, degli epidemiologi. Lo abbiamo scoperto quando di fronte alle curve disegnate dagli epidemiologi per farci rendere conto della situazione in modo semplice, continuavamo a non capirci nulla. E con grande sorpresa abbiamo visto che anche loro, gli esperti, non avevano certezze, davano letture differenti. La conoscenza è un processo lungo fatto di errori, incertezze, dialettica. Abbiamo dovuto abbandonare gli slogan per abbracciare la complessità.
Lo abbiamo scoperto perché, in un primo momento, quando avevamo affidato la soluzione ai numeri, alla tecnica, “il bimby” ci aveva restituito una ricetta in cui a morire erano i vecchi e i malati e aveva fatto spallucce. Solo che, caricando i dati nel sistema, ci aspettavamo una soluzione razionale. E a noi quella risposta non lo è sembrata affatto. Non ci è sembrata umana, accettabile.
E, a quel punto, è arrivato il Papa, “Venuta la sera” ci ha detto, siamo “sulla stessa barca”.
Ci ha detto che dobbiamo prenderci cura dell’Urbi e dell’Orbi, della città e del mondo, dell’uomo e dell’Umanità, del giardino e del pianeta. Ci ha detto di mettere al centro del discorso l’Uomo e il Mondo. “Non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie […] abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato” ci ha ammoniti, “è il tempo di reimpostare la rotta della vita”.
Ci ha detto di riappropriarci del tempo, del nostro tempo, del tempo che ci è stato dato di vivere. E lo ha fatto dandoci un appuntamento, un’ora e un luogo ben precisi per poterci parlare. E lo ha fatto con la sapienza millenaria della Chiesa che il tempo lo ha controllato e scandito per secoli con le campane, con il calendario, con le ore della preghiera, con i venerdì di digiuno e le messe della domenica. Quel tempo che la tecnologia e gli algoritmi hanno da un lato frammentato e desincronizzato per imporre un palinsesto di contenuti alternativo in cui ognuno prende ciò che vuole, quando vuole; e dall’altro reso un continuum, un’unica rete di connessioni su cui essere continuamente reperibili in una sorta di mobilitazione totale. Quel tempo, il nostro tempo, Papa Francesco, se lo è ripreso per condividerlo ancora tutti insieme, per rifondare una simultaneità di esperienza, per infondere coraggio e speranza, per “mobilitarlo” tutti insieme, come comunità umana.
E ci ha detto quello che era necessario dirci nel modo esatto in cui andava detto, scegliendo come ispirazione una pagina del Vangelo di Marco, il vangelo scritto a Roma per i romani, il vangelo che Sandro Veronesi dice essere “una raffinata macchina da conversazione, sintonizzata sull’immaginario dei suoi destinatari”. Il vangelo scritto apposta per i miscredenti, per chi era più riottoso all’ascolto.
Il vangelo perfetto per aprire un canale di comunicazione con noi, oggi, nei tempi della secolarizzazione, facendo percepire anche ai non credenti, ai laici, quanta saggezza e quanta umanità si trova in un libro che raccoglie tante occasioni umane in cui rivedersi.
Ecco, cosa abbiamo visto, fermi davanti lo schermo delle nostre case, quando questo vecchio Papa ha attraversato da solo la piazza di San Pietro: abbiamo visto irrompere sulla scena di un mondo confuso e sconsolato la competenza.
Un tipo di competenza di cui avevamo trascurato l’importanza: l’umanesimo.