Un magma lento ed inesorabile. A parlare con l’ex ministro Calogero Mannino, questa metafora prende corpo, si estende, si espande come lava senza zampilli che, con pervicacia, si crea lo spazio necessario al suo procedere, avendo ben chiara la sua meta. Per 30 anni sotto processo, accusato di aver intrattenuto rapporti con cosa nostra e di aver favorito la trattativa Stato-mafia, a 80 anni suonati, Lillo Mannino, a pochi giorni dall’ennesima sentenza favorevole, ha il tono pacato ma soddisfatto di chi è rimasto a lottare senza quel vittimismo spicciolo di chi subisce un torto. Mannino è un pezzo di Storia italiana. Dinosauro democristiano, Mannino è il preistorico ( e a tratti prezioso) reperto di un’epoca, di quei favolosi e mitici anni ’80, anni in cui si andava veloci ma, forse, senza conoscere bene la direzione. Da Ciancimino a Salvo Lima, da Andreotti a Totò Cuffaro, da Caselli a Falcone e Borsellino, dai “falsi pentiti” gestiti da un “gruppuscolo” di magistrati, fino alle strategie “esterne” ed oltreoceano che aprono scenari internazionali, Mannino traccia la sua visione politica (senza arretrare mai dalla sua posizione democristiana) di un’Italia che, a dirla come lui, non cresce più.
Innanzitutto le chiedo come sta, ministro.
Cerco di non lamentarmi e quindi i problemi non mi sovrastano.
E’ inevitabile che io le chieda un commento alla recente sentenza che lo ha assolto dall’accusa di “minaccia o violenza al corpo politico dello Stato”.
Sono stato assolto 12 volte con procedimenti vari e diversi. Quattro per reato associativo e due in questo ulteriore processo, oltre a provvedimenti vari che in connessione mi avevano aperto, ma sono stato sempre assolto. Questa sentenza è così precisa e puntuale nel contestare tutta l’impostazione accusatoria da non richiedere alcun intervento di chiarimento e di precisazione. Questa sentenza riconosce un procedimento instaurato contro di me che era illogico e infondato. Se ero vittima di minacce da parte della mafia, lo ero in quanto avevo contrastato la mafia e non per avere avuto qualche rapporto e per aver mancato qualche risposta attesa. E’ un riconoscimento della mia probità di uomo politico e di uomo dello Stato perché sono stato per molti anni ministro della Repubblica Italiana e l’ho servita con estrema lealtà. Anzi, è proprio la mia azione politica che ha messo in moto una strategia di contrasto a cosa nostra che poi ha avuto il suo punto conclusivo nel maxi processo.
In particolare a cosa fa riferimento, Mannino?
Alla discussione in Parlamento del marzo ‘80 sulla mozione conclusiva delle 2 Commissioni antimafia, senza scordare che di mezzo c’è il congresso della Democrazia Cristiana, ad Agrigento, nel 1983.
Cosa accadde in quel congresso, ministro?
In quel congresso mi sono caricato la responsabilità di mettere fuori dalla DC, Vito Ciancimino. Quindi la mia azione contro la mafia non è stata una mostrina che ho esibito per fare carriera come molti della cosiddetta “antimafia”. La mia è stata una linea di condotta seria, precisa e per molti versi efficace.
Lei è stato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa ma è stato anche promotore della mozione che ha introdotto il 416 bis che poi si è trasformato nel Disegno di Legge Pio La Torre che introduce proprio questo reato. Diciamo che si tratta di un autodafè, Mannino.
Sì, diciamo che l’ho fatto per farla applicare contro di me, o meglio, pensando alla trattativa dello Stato, “lo Stato sono io” oppure, meglio ancora, la resistenza al governo l’ho fatta a me stesso. (ride, ndr). Diciamo che i 2 processi sono fondati su una allucinazione degli accusatori, su un errore. Se poi questo errore sia stato loro indotto, questo è un problema aperto. Per favore, scriva esattamente così.
Non posso di certo tralasciare di scrivere una sua affermazione così importante, ministro.
Guardi che lo penso davvero. E’ questa una questione ancora aperta.
I suoi guai giudiziari iniziano nel ’91 con le dichiarazioni del “pentito” campobellese Rosario Spatola che lo accusa, assieme a Bruno Contrada, di intessere rapporti con la mafia.
In verità, Spatola, accusò me e Rino Nicolosi (presidente della Regione Siciliana nell’85, mantenne la carica per sei anni negli anni ottanta, guidando cinque governi della Regione, ndr). Bruno Contrada in quel tempo era Alto Commissario per la lotta alla mafia. Vede, Spatola è un pentito che viene utilizzato per dimostrare la fallacia dei cosiddetti collaboranti di giustizia ed è un pentito gestito, stranamente, da un sostituto procuratore della repubblica di Trapani in raccordo con alcuni ambienti dell’alto commissariato per la lotta alla mafia. E’ tutta un’iniziativa contro Borsellino e contro Falcone.
Ci ricorda chi è questo procuratore, Mannino?
E’ Francesco Taurisano.
Lei ha citato Falcone, il quale tra l’altro, non l’ha mai accusata e non credeva nemmeno alle dichiarazioni di Rosario Spatola.
Falcone ha fatto un articolo in difesa mia, ma soprattutto in difesa di Borsellino che era stato accusato di avere nascosto i verbali che mi riguardavano. Poi si è scoperto che questi verbali non c’erano.
In che senso?
Quando Spatola è stato interrogato da Paolo Borsellino, e da qui l’archiviazione del procedimento che mi riguardava, ha dichiarato di non aver mai firmato nessun verbale. Alla stampa erano stati dati dei verbali che non erano verbali. Questo è stato il primo “intrigo” in cui io vengo colpito per colpire altri.
E perché viene colpito per colpire altri?
Perché nel 1983 avevo messo fuori dalla DC Ciancimino, e sempre in quell’anno io appoggiavo il capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici e nel 1984 io appoggiavo Giovanni Falcone. Di questo è dato atto nell’ordinanza sentenza del maxi processo, dunque in atti giudiziari importanti. Io non mi rifugio in un’amicizia “comoda” e rivendicata per mio vantaggio. Io ricordo episodi specifici in cui io ho tenuto una linea di condotta che investiva posizioni del giudice Falcone. E dunque mi caricavo di solidarietà e corresponsabilità.
Però lei, secondo una parte della magistratura, avrebbe invece intrattenuto rapporti con la mafia, altrimenti non avrebbero messo su tutti questi processi.
Non dica una parte, dica pure un gruppuscolo della magistratura che si raccoglierà intorno a Giancarlo Caselli (dal gennaio ’93 al ’99 Procuratore a Palermo, ndr).
Lei con Ingroia e Caselli non è tenero. Li ritiene responsabili di molti dei suoi guai giudiziari. Secondo lei, entrambi, avrebbero scritto una Storia d’Italia sbagliata. Perché?
Vede, lì si apre un’altra prospettiva.
Quale?
La posizione politica di Caselli.
Mi pare di capire che secondo lei c’è sempre una matrice politica che muove tutto nella sua vicenda.
La verità è che, per fortuna, adesso, per tante circostanze, stanno venendo fuori molti documenti che non parlano soltanto della corrispondenza tra l’azione giudiziaria e alcuni disegni politici interni all’Italia e quindi di forze politiche, ma anche di fattori “esterni”
Esterni in che senso?
Ci sono 3 libri sconvolgenti, usciti in questi giorni, e riguardano Tangentopoli. Riguardano l’interferenza sulla Procura di Milano da parte di un servizio segreto di un altro Paese.
Americano?
Sì, americano. Aggiungo che tutte le vicende giudiziarie del’92 devono essere lette alla luce delle ultime risultanze. Le ingerenze interne erano quelle di Luciano Violante, ovvio.
Lei ha detto di essere stato minacciato dalla mafia. Come e in che modo la mafia l’avrebbe minacciata?
La cosa più divertente è che venivano i carabinieri a dirmi che ero in pericolo. Più volte, sia la polizia che i carabinieri, sono venuti ad avvisarmi. Evidentemente nella loro attività “preventiva” veniva fuori questo. Le ricordo che hanno incendiato nel Natale del 1990 la mia segreteria di Sciacca.
L’intrusione nella sua azienda agricola “Abraxas” di Pantelleria dove le hanno distrutto il vino passito nel 2016, come la considera?
E’ mai possibile che non sia stata fatta un’indagine che porti all’accertamento delle responsabilità criminali di un atto vandalico di quella portata? Dei delinquenti sono entrati in cantina sfondando un muro sottofondazione con un’opera tecnica militare e hanno disperso prodotto per un milione e 200 mila euro. Questo soltanto so. Le indagini non hanno portato a nessun risultato.
Lei vede un’organizzazione di carattere militare dietro tutto questo?
Sì. Anche un giornale che ha poca simpatia per me, come il Fatto Quotidiano, ha parlato di “giallo” al colore del vino, a Pantelleria.
E’ un’immagine letteraria molto affascinante, ministro.
Sì, ma coglie il problema. Giallo è qualcosa che non viene risolto.
Credo abbiano scomodato Sciascia per il titolo.
E prima ancora, Omero. Sciascia l’ha preso dall’Iliade il titolo del suo noto racconto.
Dunque, per tornare al “gruppuscolo” come lei lo ha definito, di magistrati, lei non era in pericolo per aver combattuto la mafia con iniziative concrete ma per aver tradito, semmai, le aspettative di cosa nostra. E sentendosi in pericolo, avrebbe favorito la trattativa Stato mafia per salvarsi la vita.
Avrei addirittura, secondo il gruppuscolo, influenzato i carabinieri del ROS ad aprire la trattativa.
Tramite Antonio Subranni l’allora capo del ROS?
Sì, tramite il comandante Subranni. Vede che potenza è stata la mia? (ride, ndr). Avrei mandato un carabiniere di quel tipo a trattare con i delinquenti. Alcuni non hanno il senso del ridicolo. Infatti questa sentenza definisce delle suggestioni prive di elementi assoluti di realtà. E’ una messa in scena accusatoria fantastica e che si rivela strumentale e assolutamente precaria, debole, inconsistente.
Dunque si sarebbero “liberati” di lei avviando procedimenti politici?
A distanza di 28 anni dalla Tangentopoli del ’92 abbiamo un quadro un po’ più chiaro.
Nel febbraio del ’92 scoppia tangentopoli e il 12 marzo viene ucciso Salvo Lima a Mondello. Da lì parte tutto, secondo lei, Mannino?
Cambia la strategia di cosa nostra che diventa stragista perché vuole determinare un risultato, il crollo della Prima Repubblica, cosa che di fatto avviene. La Prima Repubblica cade sotto i colpi di Tangentopoli e i colpi di cosa nostra in Sicilia. Sarà stato un caso ma è così. I processi di tangentopoli a Milano e i due processi di Palermo, ad Andreotti e a Mannino, sconvolgono gli assetti della prima Repubblica.
Che rapporti aveva, lei, con Andreotti?
Dentro la Democrazia Cristiana io sono sempre stato collocato in una posizione antagonista, diversa. Sono stato ministro in due governi presieduti da Andreotti e con lui come presidente del consiglio ho avuto ottimi rapporti di collaborazione. Quando è stata portata la proposta di nomina di Falcone a direttore generale degli affari penali, il 21 febbraio del 1991, il consiglio dei ministri, l’ha passata. Quel governo, ricordiamolo, era presieduto da Andreotti.
Falcone venne accusato di “tradimento” in quell’occasione.
Ed invece Falcone va a fare il direttore generale degli affari penali per mettere in piedi tutta la macchina con cui lo Stato ha potuto contrastare efficacemente cosa nostra come l’introduzione delle procure distrettuali antimafia, la direzione nazionale antimafia. Falcone poi si candida al CSM e viene aggredito dai concorrenti della stessa magistratura. Così come non era stato nominato giudice istruttore di Palermo per i voti contrari di esponenti del partito comunista. Questa è Storia e la Storia, in questi ultimi 30 anni, è stata manomessa.
Con beneficio politico di chi?
Certo è che il popolo italiano da questo capovolgimento politico della Repubblica, non ne ha tratto vantaggio. L’Italia da 30 anni è in una posizione molto difficile di crisi istituzionale e politica. L’Italia ha soprattutto perduto quello che aveva prima del’92. Era la quarta o la quinta potenza industriale mondiale e ora si trova al tredicesimo posto.
Ministro, non pensa che in quegli anni ci fosse una ricchezza basata soprattutto su un’ubriacatura collettiva piuttosto che basata su un’economia reale? Tutto era fondato sul debito pubblico, sullo stipendificio creato per ottenere bacino elettorale ma che in realtà produceva ben poco, non crede?
Il debito pubblico oggi è il doppio rispetto a quello del ’92. E il debito pubblico, antecedente al ’92, è il frutto di quello che è accaduto nell’economia italiana negli anni ’70.
Ovvero?
Crisi petrolifera, cambio della parità con il dollaro, terrorismo, crisi industriale. Durante la crisi industriale, la cassa integrazione, ad libitum, ha dissanguato lo Stato, senza scordare la riforma sanitaria che ha scaricato sullo Stato ingenti conseguenze finanziarie. Però, nonostante tutto, ancora oggi, gli anni ’80, vengono ricordati come anni “pimpanti”. Dopo di che, come diciamo noi siciliani, “l’Italia non si vitti cchiù lustru”.
Diciamo che le condizioni mondiali sono diverse, ministro?
Certo, basti pensare a quanta parte della produzione industriale è stata trasferita all’estero ed è ridotta a difendere lo stabilimento dell’Ilva di Taranto. Se chiude, perde la produzione d’acciaio. Non so l’Italia di cosa voglia campare.
La deindustrializzazione è quasi inevitabile, non crede? Quasi tutto viene prodotto in Cina che non teme concorrenti.
Questa deindustrializzazione, in Germania e in Francia non è avvenuta. Qua invece la classe politica sa governare i processi.
Anche la locomotiva tedesca pare che arranchi.
Si tratta di un rallentamento congiunturale. In questo momento, tranne gli Stati Uniti d’America, anche la Cina sta avendo una flessione nel ritmo di crescita. L’Italia è a 0,1, non cresce più e meno si cresce più aumenta il debito pubblico.
Cambiamo argomento, ministro. I suoi rapporti con Totò Cuffaro come erano e come sono?
Sul piano personale, io gli porto affetto.
Era considerato il suo erede politico.
Ma forse lui non ha mai provato ad esserlo (ride, ndr). Questo però non significa che io non gli voglia bene.
Tiziana Sferruggia
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