Ce le ricordiamo ad ogni campagna elettorale le facce di quei candidati che strizzano l’occhio agli abusivi. Ce le ricordiamo, con il loro cinico pragmatismo, pronti a giustificare qualsiasi violazione della legge pur di raccogliere qualche consenso in più. Ce le ricordiamo guardare con sufficienza i volti di chi da anni cerca di spiegare che non è possibile continuare ad aggiungere cemento a cemento, costruzione a costruzione, anche in prossimità di litorali, costoni rocciosi, fiumi o torrenti.
La storia della Sicilia è piena di amministratori che hanno violato le regole per trarne un vantaggio diretto, erigendo villette a due passi dalla battigia o da zone formalmente oggetto di tutela architettonica o ambientale, nel silenzio di chi avrebbe dovuto vigilare. Di fatto, novelli epigoni del Marchese del Grillo e fautori di una certa idea di potere, in cui “io so’ io e voi nun siete un cazzo”. Poi ci sono quelli che magari non si sono costruiti le villette abusive, ma hanno tollerato che lo facesse una parte consistente dei propri elettori, autorizzandoli – magari – a prolungare le loro verande fino a trasformarle in stanze e caldeggiando condoni e sanatorie. Ma ci sono anche quelli che non hanno mai consentito l’approvazione dei Piani Regolatori comunali, lasciando spazio a un’occupazione selvaggia del territorio. E quelli che a parole hanno sempre proclamato di essere feroci nemici dell’abusivismo edilizio, evitando però di mostrare la stessa determinazione nei fatti, per non perdere troppi voti. Più recentemente, abbiamo anche avuto quelli che prima urlavano “onestà, onestà” e poi hanno cominciato a parlare di “abusivismo di necessità”, finendo per considerare plausibili i condoni.
Di fatto, a parte qualche sporadica eccezione, non c’è mai stata davvero in Sicilia una reale presa di coscienza dei danni che questo sistema avrebbe creato nel tempo ai figli e ai nipoti dei protagonisti del “Sacco di Palermo” e di chi ne ha seguito l’esempio nelle province di Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Enna, Messina, Siracusa e Ragusa. Pochi, troppo pochi, coloro che sono autorizzati in queste ore a urlare la propria indignazione di fronte ai morti di Casteldaccia, Vicari o Cammarata. Pochissimi quelli che hanno parlato a tempo debito e che sono legittimati a farlo adesso. Perché l’unica consapevolezza che ogni siciliano dovrebbe avere in queste ore è che quanto accaduto nella notte tra sabato e domenica si sarebbe potuto verificare in qualsiasi angolo dell’isola. Di fatto, è come se cinque milioni di siciliani avessero puntata alla tempia una pistola con un unico proiettile, che alla prossima rotazione del tamburo mieterà qualche altra vittima. Come nella roulette russa. Una sensazione che, tra terremoti, frane, piene ed esondazioni, trova similitudini inquietanti in tante altre aree del Paese.
A questo punto, l’unica emergenza che dovrebbe davvero ossessionare i governi di ogni livello dovrebbe essere un’azione di reale messa in sicurezza dei territori. Purtroppo, però, chi segue le cronache del nostro Paese da un po’ di tempo, sa bene che non appena calerà il sipario su queste ennesime giornate luttuose, i nostri politici deporranno la maschera della costernazione per tornare a indossare quella del più consueto cinismo, tenendosela ben stretta almeno fino alla prossima alluvione.