Pane e Rosatellum

Vincenzo Figlioli

Marsala

Pane e Rosatellum

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venerdì 27 Ottobre 2017 - 06:47

Rappresentanza e governabilità: questi i due poli tra cui si ritroverebbe ad oscillare la legge elettorale se riuscissimo ad immaginarla come se fosse un pendolo. Dando uno sguardo generale ai sistemi elettorali che ci sono nelle democrazie contemporanee, è difficile individuarne uno che riesce a mantenere un autentico equilibrio tra questi due poli. Ci sono quelli che sacrificano una quota di rappresentatività dell’elettorato tagliando fuori i partiti più piccoli a beneficio della costituzione di coalizioni di governo coese e quelli che invece preferiscono salvaguardare un pluralismo politico anche esasperato a discapito della stabilità dell’esecutivo. Spesso si rivela decisivo il contesto storico: l’Italia repubblicana, appena uscita dal ventennio fascista, scelse il più classico dei sistemi proporzionali per soddisfare l’esigenza sociale e civile di un dibattito a più voci dopo anni di soppressione del dissenso democratico. Era una stagione in cui le differenze ideologiche erano talmente marcate da limitare al minimo i rischi di migrazioni o trasformismi (che comunque ci furono). Col passare degli anni, quel modello si rivelò inadeguato, in quanto portò alla nascita di partiti di dimensioni minuscole che finivano per condizionare notevolmente l’azione di governo.

Il “mantra” dei fautori della Seconda Repubblica fu la necessità di passare a un sistema diverso, che ponesse fine alla iattura dei “50 governi in 48 anni”. Il referendum sul maggioritario sembrò dare una chiara impronta a una trasformazione del sistema istituzionale italiano, anche se la successiva legge elettorale – il “Mattarellum” – lasciò sopravvivere una percentuale di seggi da attribuire con il proporzionale. Era una legge imperfetta e sicuramente rivedibile, che però restituì sempre maggioranze di governo chiare sia quando vinse il centrodestra di Berlusconi, sia quando si affermò il centrosinistra di Prodi. Ma soprattutto era un sistema che rafforzava il legame tra eletto ed elettore, attraverso il meccanismo dei collegi uninominali che venivano assegnati con il maggioritario.

Il successivo “Porcellum” del 2006 riportò in auge il proporzionale (inserendo sbarramenti e premi di maggioranza) eliminando però le preferenze, col risultato di affermare un parlamentarismo sempre meno legato ai territori e al principio di rappresentanza e sempre più identificato con le segreterie dei partiti e il principio di fedeltà al leader. Dal 2006 ad oggi, soltanto in un caso (nel 2008) ci sono state maggioranze in grado di garantire una certa governabilità. Per il resto c’è sempre stato un gran guazzabuglio, che ha alimentato governi di “larghe intese” o “tecnici” incapaci di attuare riforme politiche adeguate alle necessità del tempo. Un sistema elettorale bocciato poi dalla Corte Costituzionale e con cui giocoforza non si sarebbe più andati alle urne nel 2018.

Da qui la necessità di una nuova legge che si sarebbe potuta trasformare in un’opportunità preziosa per far riscoprire ai cittadini il valore della partecipazione politica dopo anni di disaffezione, certificati dall’aumento dell’astensionismo. Ancora una volta però, la classe dirigente del Bel Paese ha partorito un sistema che non tiene conto di tutto ciò: il “Rosatellum” approvato ieri in Senato è una legge pessima, che coniuga malamente “Mattarellum” e “Porcellum” introducendo aspetti tagliati e cuciti per salvaguardare interessi politici e lobbistici: ridicolo lo sbarramento del 3% per i singoli partiti, così come il meccanismo delle pluricandidature nel proporzionale, a tutela dei soliti nomi che vivono la politica come una posizione di potere e non come un servizio.

E dire che sarebbe bastato riprodurre su scala nazionale un meccanismo simile a quello delle elezioni comunali per restituire ai cittadini un buon compromesso tra governabilità e rappresentanza. Ma evidentemente la volontà politica andava, anche stavolta, in una direzione diversa, favorendo ancora quelle “larghe intese” che continueranno a perpetuare l’esistente, a vantaggio di chi in questi anni ha visto ogni forma di cambiamento come una sventura da avversare, scommettendo sul mantenimento dello “status quo”, a prescindere dai nomi e dalle sigle di partito.

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