Stupore e disincanto

redazione

Stupore e disincanto

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lunedì 28 Novembre 2016 - 17:44

Viviamo tempi in cui più ci si allontana da una meta, che può essere costituita da un valore o un’emozione, e più se ne avverte la necessità.
Così è per la poesia, genere creativo dall’ardua definizione, polisemica per genesi, atteso che dice questo e anche l’altro. Abbiamo sempre più bisogno di poesia, che si nutre di lucida follia – essendo un sogno in presenza della ragione o un ragionamento in presenza del sogno – pur vivendo un’epoca che sembra avere smarrito lo stupore e vive  adagiata sul disincanto, quanto non sullo smarrimento che sconfina nel nichilismo, nella paura del futuro, dell’altro, del diverso.
Siamo tutti in bilico, almeno per quanti non scelgano di sopravvivere invece di realizzare la loro personalità, tra il bisogno dello stupore e la necessità del disincanto.
Queste direttrici, all’apparenza diametralmente opposte, e che si ritrovano in ogni ambito del vivere: dal lavoro alla politica, dai rapporti interpersonali alla cultura e all’arte, in realtà si tengono per mano. Se il sogno, il desiderio, la motivazione che ci spinge a inseguire le aspirazioni, hanno bisogno di stupore, di sorpresa, e quindi di poesia, è pur vero che la finestra del desiderio s’infrange spesso nei frantumi aguzzi del fallimento, dello smarrimento, della delusione, del tradimento.  Ma subito dopo ecco emergere un altro desiderio che si culla su un ritrovato stupore dimentico del disincanto che l’ha appena preceduto.
Quante volte, a ognuno di noi, è capitato di credere a un’idea, a una persona, a un’impresa, che ci avvolgevano e ci facevano vibrare di passione, e poi quell’alone di stupore si è dissolto nella nube della realtà che trasforma la policromia dello idillio in una tela a tinte fosche.
Siamo pertanto come pendoli inconsapevoli in un orologio dell’esistenza che oscillano tra la magia che ci sorprende in uno sguardo, in un sorriso, nella luce improvvisa di una mano tesa, e la delusione che ci confina, nella migliore delle ipotesi, nel perimetro dorato eppure angusto dell’ironia e della satira per non naufragare nelle disavventure del quotidiano.
Quali sono le sillabe del nostro codice emotivo? E perché cimentarsi in un sillabario che analizza il nostro ruolo nel mondo e anche nel microcosmo in cui spendiamo la nostra esistenza? E quale il nesso tra queste elucubrazioni che sembrano così astruse da non avere alcun collegamento con la realtà, e il luogo in cui viviamo?
Si potrebbe rispondere in molti modi. Preferisco, tra tutte le combinazioni possibili che il nostro linguaggio espressivo ci concede, due citazioni.
La prima, tratta da un libro postumo di Antonio Tabucchi e che dà il titolo all’opera, è: di tutto resta un poco. E il tutto è anche quanto riusciamo a fare nella vitale illusione di lasciare il mondo in condizioni migliori di quelle in cui l’abbiamo trovato. E se il poco è anche un attimo di riflessione, allora sarà valsa la pena di iniziare a scrivere questo strambo sillabario.
La seconda, frutto del pensiero di un poetico caraibico, Edoard Glissant, e contenuta nella sua opera, Poetica delle relazioni, è: non si emettono parole nell’aria. Tutto quanto scriviamo, sospinti dall’immagine che non è certo l’ancella vuota della parola, è frutto della terra che calpestiamo, del sudore che respiriamo, delle pietre che ci circondano.
Benvenuti, allora, in questo viaggio personale che intende costruire un ponte per accompagnare tutti coloro che vorranno condividerlo con me, senza paura di smarrirsi nello stupore e privi del timore del disincanto.

Fabio D’Anna

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