Dato che si vive una volta sola, è meglio – direbbe Catalano – vivere con stile, anziché con cafoneria. Lavorare in un mega-ufficio elegantemente arredato e con le vetrate a vista su un parco o di fronte al mare, è ok.
L’indiana Bollywood forse ha soppiantato la mecca del cinema, ma quella collina californiana con la scritta cubitale è ormai un luogo della memoria. Sidney, Hong Kong, Vancouver? Ci andremo tutti prima o poi. Magari appena attecchisce il low cost anche su quelle rotte. La creatività è un’aquila favolosa che solca cieli sempre nuovi: da Reykiavik a Capetown, da Mosca ad Abu Dhabi, da Seattle a Seoul, da Helsinki a Melbourne. La foresta più grande del pianeta? E’ sempre in Amazzonia. E speriamo che ci rimanga. Il mercato più grande del mondo è quello fra New Delhi e Pechino. Ma è nel Mediterraneo che si vive meglio: grazie ad uno stile che vede nella giusta dose la sua filosofia di base: non rinunciare a niente, con niente esagerare, un senso di soddisfazione accessibile a tutti.
Le cose migliori della vita non vanno mai in over-booking. La giornata è un rito sensoriale di equilibrate indulgenze e divine correttezze, di temporanei doveri e di doverosi piaceri. Non si può mangiare per mangiare, non si può parlare per parlare. Evitiamo la sbronza, di qualunque genere: perché annoia (non per altro) e abbrutisce. Il Mediterraneo style è un mondo di armonie, di tanti accostamenti, di piccole provocazioni dei sensi. Dieci minuti di cyclette bruciano le stesse calorie di una passeggiata in montagna. Ma non è la stessa cosa. Nella dolce filosofia, il mito della velocità non ha mai attecchito. Le cose hanno bisogno del giusto tempo di cui hanno bisogno. Viva il giusto ritmo, quello per cui i preliminari sono sempre graditi come tutti gli aperitivi. Ma dopo l’happy hour deve sempre seguire il pasto vero. In tutti i sensi.
Intelligenza, ecco la conquista della dolce filosofia. Fare di tutto – il vino, il cibo – un mezzo. Perché il solo vero fine è la ricerca del nostro intimo piacere. E il piacere è sempre connesso alla coscienza/conoscenza. E’ questo lo spirito che accomuna quanti viviamo nel “mare di mezzo”. Ce ne siamo mai accorti? Intanto, a fronte delle filosofie del buon vivere, anche alle nostre felici latitudini i consumi di vino calano. Almeno quelli al ristorante. Sarà un effetto della crisi che incide sulla capacità di spesa di chi comunque mangia fuori? Oppure c’entra la psicosi dell’etilometro che incombe dietro l’angolo, appena ingranata la marcia? Beh, abbastanza più crudamente la colpa è soprattutto dei ristoratori che non sono capaci di attuare una buona politica di magazzino e di cantina. Perché quasi mai la qualità della “carta dei vini” corrisponde a quella dei menù? Perché i ricarichi di prezzo sulla bottiglia sono sempre sproporzionati rispetto alle pietanze? Perché sono ancora pochi quelli che sanno proporre un buon vino al calice ? C’è, a Parigi, un ristorante italiano che ad ogni cliente chiede di scegliersi prima il vino – potendo far selezione fra un’ampia forbice di prodotti che spazia dai 3 ai 98 euro a bicchiere – e poi gli propone il piatto giusto da abbinare. Tutto questo non accade generalmente in Italia. Alzi la mano chi conosce una trattoria che sa sposare veramente una cucina autentica ad una ragionata scelta di vini! Quante volte il gestore ci sa consigliare il vino giusto per ciascun cibo ? Accade spesso o raramente che la scelta riesca a coniugare la tradizionalità del piatto con la territorialità del vitigno? Vedete come la conoscenza e il buon senso incidono sull’economia e sul buon gusto? Basta, dunque, puntare su una miglior cultura per assicurarsi benessere psico-fisico e mantenere buon livello di consumi? Magari non sarà una verità assoluta ed eterna, ma è già un buon inizio per contrastare i pessimismi dell’agro-alimentare prodotto e consumato.
Gli Italiani sono tornati a spignattare. Vogliono recuperare le ricette della nonna oppure sperimentare piatti nuovi. Facendo zapping a qualsiasi ora del giorno e della notte, ci si imbatte in qualcuno che spadella. Così come ognuno si sente c.t. della Nazionale, pensa anche – e narcisisticamente – di essere imbattibile ai fornelli, magari di saper cucinare 2 o 3 piatti meglio di chiunque altro al mondo. La lotta contro il mangiare male non è più un fenomeno di élite. Anche gli strati medio-bassi in Italia sono storicamente molto attenti nell’alimentazione, il cibo inteso come identità è per noi un tema antico. Oggi si riscopre anche il gusto del cibo povero, della parte sprecata dell’alimento, del kilometro zero. Complice la crisi e la scomparsa di molte trattorie tipiche, molti tornano a cucinarsi il proprio piatto preferito a casa. Ognuno diventa cuoco di se stesso. Ma senza dimenticare che il cibo è, per sua natura, sociale. Si mangia in compagnia, diventa oggetto di conversazione e discussione, l’occasione conviviale per eccellenza. A volte fino all’eccesso. Nei giorni feriali si mangia da soli o scambiandosi due parole al bar. Il fine settimana va in scena una vera e propria celebrazione rituale del pasto. I meno abbienti, i salariati fissi tendono ancora a riprodurre il pranzo tradizionale della domenica: il pasto dell’abbondanza, dell’abbuffata. Le classi elitarie (o che ambiscono a diventare tali) cercano, invece, di riprodurre modelli di consumo più alti e raffinati, di esplorare anche attraverso il cibo dimensioni inusuali. La tavola pare trasmettere un’idea del mondo più rassicurante: attorno ad essa ci si ferma, su di essa tutto è ordine e gerarchia esplicitata, i suoi rituali sono del tutto interiorizzati e definiti. Un bel pranzo mediterraneo, gustoso, importante – magari aperto da un grande Marsala Vergine e concluso con un intrigante Marsala dolce – riconcilia con la vita.
Tornare intorno alla tavola è quasi un rifugio rispetto al caos che ci circonda.
Cucina salvifica. Bicchiere terapeutico !
Diego Maggio