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La condanna di D’Alì e gli intrecci tra mafia e politica nel trapanese

Per tanti anni Antonio D’Alì ha rappresentato la massima espressione del potere politico in provincia di Trapani. Uno capace di vincere ad ogni campagna elettorale, di disegnare liste e alleanze, di porre veti e decidere carriere politiche. Uno capace – da sottosegretario al Ministero dell’Interno – di far arrivare una barca di soldi a Trapani per l’America’s Cup e di disporre che per il restyling della zona portuale trapanese si applicasse la procedura di Protezione Civile solitamente adottata per la ricostruzione delle comunità colpite da calamità naturali. “Non si muove foglia che Tonino non voglia”, soleva dire qualcuno negli anni ruggenti del berlusconismo trapanese. E non aveva tutti torti. Tanto che persino i leader delle opposizioni locali finivano spesso per mostrare soggezione o velleità collaborazioniste nei suoi confronti. La condanna per associazione mafiosa confermata dalla Corte di Cassazione conferma che l’ex senatore non si faceva particolari scrupoli a dialogare con esponenti di Cosa Nostra, divenendo un interlocutore privilegiato per soggetti che sono stati nel tempo condannati per associazione mafiosa e arrivando ad orchestrare persino l’allontanamento di un prefetto (il compianto Fulvio Sodano) che veniva ritenuto uno ostacolo ai disegni del potere trapanese.

La vicenda di D’Alì, però, non va considerata come un caso isolato. Perchè le inchieste di questi anni hanno dimostrato che gli intrecci tra mafia e politica continuano ad essere frequenti nel trapanese. A Marsala, per dirne una, le operazioni del progetto “Peronospera” accertarono che nel 2001 esponenti della famiglia malavitosa locale partecipassero alle riunioni elettorali in cui sarebbe dovuto scegliere il candidato sindaco della coalizione di centrodestra, con l’ambizione di mettere le mani sugli appalti o sulla gestione di alcuni servizi sociali erogati dal Comune. Mentre le più recenti operazioni “Artemisia” e “Scrigno” hanno portato alla sbarra altri personaggi di primo piano della politica trapanese, da Giovanni Lo Sciuto a Paolo Ruggirello. Se in Sicilia la mafia esiste ancora, nonostante le stragi e i movimenti antimafia che l’hanno coraggiosamente contrastata, è perchè esiste una borghesia mafiosa che per tutelare se stessa, i propri affari e le proprie carriere non si fa scrupoli a trattare con le frange militari delle organizzazioni criminali, quelle che fanno il lavoro sporco (intimidazioni, minacce, estorsioni, pestaggi, rapimenti, omicidi) suscitando la riprovazione collettiva. Ed è in questo contesto che si inserisce la vicenda di Matteo Messina Denaro: non è accettabile che uno Stato non riesca ad arrestare un boss ritenuto responsabile delle più efferate stragi della storia repubblicana. Una vergogna del genere, che dovrebbe togliere il sonno a tutti i rappresentanti delle nostre istituzioni, è spiegabile solo con la collaborazione e la connivenza di pezzi importanti di quell’apparato statale che – evidentemente – continua a ritenere vantaggioso che il latitante castelvetranese sia ancora a piede libero. La dimostrazione che le milizie della borghesia mafiosa sono più numerose e influenti di quanto, probabilmente, si immagina.

Vincenzo Figlioli

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Tags: Antonio D'Alì