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Salsa y merende

Questo articolo è pensato solo per lettori pazienti. Per questo fin da subito mi affretto a rilevare tags e topics che saranno via via toccati così da evitare di creare false aspettative o, peggio, di sottrarre tempo prezioso al lettore con le idee chiare e poco tempo a disposizione. Cominciamo col dire intanto che non si parlerà di un ballo estivo, come lascerebbe erroneamente presagire il fuorviante titolo.

Ci imbatteremo invece in diverse espressioni dialettali della tradizione popolare e contadina del trapanese, come: ‘a saissa vinni quagghiata / s’appigghiau / appizzau / ‘u focu sbambau / ‘a ligna s’astutau / ‘a machina s’ attuppau etc … Ecco un piccolo assaggio dei sostantivi con cui faremo avremo a che fare: ‘u puramureddu / ‘u tripporo / ‘u scumabbjoro / ‘u quararu / i ziddri / i rappugghi / ‘a miricina e così via.

E quindi saremo catapultati nel bel mezzo di un imprecisato pomeriggio di metà Anni Ottanta, quando, sciroccati dall’impietosa canicola agostana (scajmazzu), ci si preparava ad arrusciare (dal fr. arroser) i chiani del marsalese, pronti ed allineati a dar vita all’evento dell’anno: ‘a saissa.

Ab ovo. C’è un’antica tradizione nel sud Italia e specialmente in Sicilia. Quella delle conserve. Complici le belle giornate, le ferie e una maggiore disponibilità di materie prime, l’estate è il momento perfetto per dedicarvisi anima e core. Dalle marmellate ai succhi, dalle conserve a base di verdura, come le meravigliose caponate fino ai reali di tutte le conserve, almeno in Sicilia: i buttigghi. No, non è un refuso. Nella maggior parte delle campagne sicule l’espressione idiomatica fare i buttigghi (bottiglie) non può essere frainteso con nessun’altra attività se non con la preparazione delle conserve a base di succo di pomodoro. La parte per il tutto.

Questo ci racconta in breve una cosa: quanto sia importante e iconica questa attività per i siciliani. Più popolare degli Sciroppi fatti in casa o dei Rosoli, forse anche di Granite e Caponata, a pari quasi di Arancine/i e Cannoli … Ecco a voi la regina, la Salsa di pomodoro, che a seconda di latitudini e longitudini si potrà pronunciare: Sajjssa, Sassa, Sarsa, Sarza e qualche altra leggera variante derivante dal “suco”. Ma per tutti, senza variazioni saranno: buttigghi.

A scanso di equivoci, sarò estremamente chiaro. Se qualcuno si volesse illudere che questa attività estiva, possa fungere da occasione festosa e innocente nonché allegro ritrovo familiare, temo sia abbondantemente fuori strada. Come in qualsiasi attività che si rispetti in Sicilia, che comporti una prova e quindi il rischio della sua riuscita, i sentimenti dominanti dei protagonisti sono da ricercare solo ed esclusivamente nel loro basso ventre. Di conseguenza, la tragedia è sempre ad un passo.

E infatti, quasi sempre è la collira il sentimento prevalente, da non confondere però con la parola italiana “collera”. Si tratta bensì di una sorta di lancinante preoccupazione, diciamo pure angoscia legata in maniera viscerale alla riuscita dell’impresa. Un’ansia da prestazione all’ennesima potenza. L’altro sentimento è la raggia, un indefinibile stato d’irascibilità che spesso colpisce anche soggetti che, in apparenza, non ne sembrano particolarmente affetti. Ma, come vedremo, fare i buttigghi è un’esperienza di vita che travalica ogni altro esercizio terreno.

I protagonisti di questa sit-com sono in genere i membri di una famiglia standard: il marito, che designeremo per comodità, l’uomo nero; la moglie che per l’occasione si trasformerà magicamente in donna remissiva, due o più figli, nel pieno della loro adolescenza, abili osservatori ma spesso dispensati dai compiti più importanti; e i nonni che a turno si scambieranno il ruolo di addetto alla quarara e/o di macinatore/trice seriale. Con il ruolo di comparsa, un disturbatore (non manca mai), impersonato da qualche vicino di casa, che però, alle prime scaramucce sarà gentilmente invitato con l’eloquenza degli sguardi e senza troppi complimenti, a togliersi dalle palle.

Il set dove si gira il film, già preannunciato all’inizio, è un angolo appartato del chiano dove si ingegna ‘a quarara (un marmittone alimentato a legno), una buffetta semovibile (ampia tavola in legno) su cui viene montata ‘a machina ppi macinari e una zona di sculatura del pomodoro allestita grazie all’utilizzo di una vecchia serranda di legno dismessa, per l’occasione tirata a lucido.

La cognizione del dolore comincia a prendere forma nel primo vespero quando l’uomo nero, allo scattio del caldo, in mezzo allo scajmazzo di un pomeriggio che si sarebbe confermato rovente (in tutti i sensi), comincia ad impostare accanto alla buffetta, le cascie (casse) piene di bottiglie precedentemente lavate e scolate a dovere. A lui l’onore di accendere la fiaccola dei giochi olimpici du pummaroro.

Al primo spacco del vugghio, quando il primo carico di pomodoro è pronto per essere lavorato, la complessa macchina operativa viene così chiamata alla sua prima importante prova: la macinatura. Succede che, certe volte, il collo della macinatrice si ingolfa. È questo uno dei momenti di massima tensione: quando la spirale s’indurisce a tal punto che dal filtro non si riesce a cavar fuori nemmeno una maledetta goccia di succo di pomodoro. Lì si apre ufficialmente la prima crisi ufficiale … e temendo gli strali dell’uomo nero, tutta la ciurma rimane in tensione, trattenendo il fiato.

Ci si mette poco a comprendere che il meccanismo si è inceppato (s’attuppau). Bisogna infatti liberare la spirale che è piena abbummata di rappugghi, piena di scarti, prima di poter tornare alla consueta operazione della macinatura. Più facile a dirsi che a farsi, dal momento che la prima cosa da fare è smontare completamente la tramoggia dall’asse verticale.

In genere questa parte non è così complicata: ma cosa non lo diventa nel rapido susseguirsi nervoso delle operazioni e con la costante pressione dell’uomo nero lì attorno? E questo è, immagino, il momento in cui Cristo (yesss, proprio lui) si mette comodo a tavola insieme a tutti gli attori, assistendo da vicino a tutte le operazioni di smontaggio e finendo per assumere personalmente (e con proverbiale pazienza) tutte le colpe per l’inevitabile bruciatura delle mani dell’uomo nero… Cupio dissolvi. Segue un quarto d’ora di silenzio, ora che le mani dell’operatore sembrano essere diventati i guantoni di Dino Zoff da poco reduce dal Mundialito.

Se si riesce a dissimulare bene i propri sentimenti, trattenendo l’ilarità senza lasciarsi coinvolgere dalle smorfie impettite di quell’uomo nero, buffo e ormai ufficialmente imbruttito, si potrà passare alla fase successiva senza grossi problemi. Ma l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e ‘u riavulu (il diavolo) sempre in agguato. Il secondo campanello d’allarme suona infatti quando durante le operazioni di travaso dalla quarara alla serranda, tramite ‘u scumabbjoro (scolapasta gigante), la pendenza dell’asse spesso causa uno scivolamento inaspettato dei pomodori che finiscono pian piano e impietosamente per sdivacarisi ‘nterra. Beddra Matri! Tutta ‘a saissa c’appizzamu!” (trad. Maria santissima addolorata… qua rischiamo proprio di metter a repentaglio l’intera produzione odierna della salsa! …vojjdiri!) Frase che con molta probabilità potrebbe scappar detta dalla nonna che, però, si morde subito la lingua, pentita di aver aizzato il cane. E infatti, l’uomo nero non aspetta altro, dal momento che la quiete per lui è solo un breve momento fra una tempesta e l’altra.

E a questo punto della serata non è infrequente che sbotti contro l’addetto alla quarara: ‘a nonna, quasi sempre sua madre, occasionalmente anche la suocera. E la reprimenda verbale all’indirizzo della malcapitata può anche essere terribile, al culmine di un parossismo fine a sé stesso. Questo è l’acme della serata. Dopodiché l’uomo nero, ormai ridotto ad una mascheradi sudoree carbone (ed ecco finalmente svelato il motivo dell’appellativo nero), si richiude in un ostinato silenzio di espiazione dei propri peccati.

C’è sempre un primo e un dopo dietro questo scoppio di emotività. Da lì in poi il lavoro infatti procede ordinatamente e in silenzio. Almeno per la successiva ora. L’afa nel frattempo sembra a poco a poco diradarsi consegnando a tutti i protagonisti i riflessi di una splendida serata. Tanto che si riesce a sentire scoppiettare la legna sotto la quarara, mentre dalla sala da pranzo di una casa del chiano lì vicino, arriva l’audio della televisione, del gioco a quiz di prima serata, Ok il prezzo è giusto, con Gigi Sabani.

È allora, quando l’aria dolciastra della sera sembra ormai spingere da un’altra parte il giorno, che la nonna, riguadagnata in silenzio la sua voce in capitolo, propone di mangiare qualcosa: per l’occasione la donna remissiva, moglie dell’uomo nero, aveva preparato nel pomeriggio, qualcosa di freddo, già pronto alla bisogna: nella maggior parte dei casi pani cunzato.

Ci si prepara così ad una lunga serata, ‘mmutu (imbuto) e buttigghia in mano, chini sulla quarara a riempire le prime buttigghie vuote. Non prima di aver aggiunto alla marmitta della salsa in ebollizione (che baccarìa) una bella manciata di basilico,olio d’olivae, spesso pronunciata sottovoce, ‘a miricina, la medicina, un misterioso antiossidante in bustina di cui nessuno sembra mai volerne sapere troppo.

Tutti adesso sembrano essere velatamente contenti. E dopo la prima vugghiuta si odono finalmente i primi commenti: “a sajjssa vinni bbona/ a pezzu vinni / beddra quagghiata è” (trad. è venuta molto densa, la salsa). Nessuno pare lamentarsi della quantità: “assai ittau stu pummaroru” perché la resa, ad occhio e croce, sembra aver soddisfatto le aspettative. Bottiglia dopo bottiglia, quararu dopo quararu, fino alle ore piccole. Fin quando l’uomo nero, che comunque non lesinerà nel frattempo di invitare più volte i Santi del paradiso durante le operazioni di ‘ntappamento, esausto ma finalmente disteso, comincerà ad intravedere la luce in fondo al tunnel. Succede quando cominciano le operazioni di magazzinaggio nel sottoscala: ossia quando comincerà a curcari a letto, con estrema cura, tutti i buttigghi, le sue creature, ammantandole amorevolmente di pesanti coperte invernali.

Sono le prime ore del mattino quando il canto del gallo sottolinea l’esigenza di andare a letto per riposare qualche ora, prima di riprendere le normali attività giornaliere. Fra poche ore l’uomo nero dovrà tornare nell’anonimato del suo lavoro di impiegato del catasto, di muratore,dirappresentante, di bottegaioo diinfermiere, lasciando probabilmente a malincuore il suo incarico di dux supremus pumarorum. Sua moglie, dall’ingrato compito di donna remissiva, ritornerà allora di colpo in sella al posto che le spetta di diritto, quello di comandante supremo delle Forze … in Famiglia. I figli invece (specie se adolescenti e cresciutelli) faranno lentamente ritorno alle normali attività di routine: annoiarsi fra una canna e l’altra nell’attesa che si faccia l’ora della birretta con gli amici. E i nonni?

I nonni ricominceranno lentamente e di malumore ad annoiarsi nelle lunghe roventi e interminabili giornate estive. Con una sola eccezione: mio nonno Vito che non si annoia mai. Avendo per l’ennesima volta perso di vista mia nonna, è già tornato a cercarla disperatamente per tutto il chiano. E si sente solo lui adesso che chiama: “Tu-o-tu !?” *** Mi sembra quasi di sentirlo ancora …

***Vedi articolo: https://itacanotizie.it/2022/06/15/nomi-della-tradizione-siciliana-limportanza-di-chiamarsi-ntuzzu/

PS: buone vacanze a tutti i lettori. La corda pazza ritornerà a settembre.

Gianvito Pipitone

La corda Pazza “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri

L’autore: Gianvito Pipitone da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.

Gianvito Pipitone

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