L’aspettavano in tanti, con la bava alla bocca, la sentenza sul processo d’appello, relativo alla Trattativa Stato-mafia. L’aspettavano per dire che “avevano ragione” e arricchire di un nuovo capitolo l’eterna resa dei conti tra politica e magistratura che accompagna l’Italia dagli anni ’90. L’aspettavano per mettere all’indice giornalisti (Travaglio su tutti), magistrati (Ingroia, Di Matteo), soggetti politici (Movimento 5 Stelle), pezzi di società civile (il popolo delle Agende Rosse), che nel tempo si sono maggiormente impegnati nella ricerca della verità sulle Stragi che si consumarono in Italia tra il ’92 e il ’93. Basta leggere i titoli della maggior parte dei quotidiani italiani degli ultimi due giorni per rendersene conto, mentre i tg di Mediaset (solidali con l’ex senatore Marcello Dell’Utri) sembrano tornati indietro di vent’anni, tra invettive più o meno velate contro giudici e stampa indipendente ed editoriali più o meno autorevoli in cui si torna stucchevolmente a discettare sull’utilizzo pertinente del termine “trattativa”.
In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, come hanno già scritto diversi commentatori, il dispositivo più volte citato in questi giorni non nega che ci sia stata un’interlocuzione tra pezzi delle istituzioni e pezzi della mafia (Riina, Bagarella) che vedendo le contraddizioni dello Stato ritennero di poterlo ricattare. L’assoluzione di Subranni, Mori e De Donno (“perchè il fatto non costituisce reato”) non nega l’esistenza di una Trattativa o quantomeno di un dialogo come talvolta (discutibilmente) avviene tra corpi dello Stato e organizzazioni che si pongono contro di esso, con l’obiettivo di ridurre il danno (nel caso specifico, le stragi).
Al contempo, l’assoluzione di Marcello Dell’Utri tira fuori l’ex senatore forzista da questa vicenda ma non ne smacchia la fedina penale, su cui pesano le condanne passate in giudicato per abusivismo edilizio e, soprattutto, per concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto sono risultati provati i suoi legami con Cosa Nostra. Senza dimenticare un patteggiamento per fatture false e frode fiscale e la prescrizione per l’inchiesta sulla cosiddetta P3. Chi, dunque, sta provando a farlo passare per una povera vittima di complotti e teoremi, dovrebbe prima fare i conti con sentenze definitive e fatti accertati che vanno in tutt’altra direzione.
Tornando alla Trattativa, va detto che purtroppo non è così inconsueto che uno Stato tratti con chi lo attacca. E’ noto che ai tempi del sequestro Moro, uno dei principali partiti della scena politica, il Psi di Bettino Craxi, si fece fermo sostenitore della necessità di trattare con le Brigate Rosse, mentre Dc e Pci scelsero la linea della fermezza. In altri momenti sono state scelte strade diverse, come dimostrano anche le vicende che recentemente hanno visto diversi cittadini italiani rapiti all’estero da organizzazioni criminali o detenuti da governi autoritari. Si dice che siano stati pagati dei riscatti e appare chiaro che, dovendo scegliere tra l’onore e la vita umana, le istituzioni nazionali abbiano dato priorità alla salvaguardia dei soggetti tenuti sotto sequestro, accettando di scendere a compromessi anche a costo di legittimare controparti che si pongono nell’alveo dell’illegalità e della negazione dei principi democratici riconosciuti in uno Stato di diritto.
Al di là degli aspetti processuali, ci sono dunque quelli storici: ricordando il clima dei primi anni ’90, non stupisce che alcuni uomini delle istituzioni abbiano provato a capire se c’erano condizioni accettabili per evitare omicidi e stragi, in un momento storico in cui la caduta del Muro di Berlino e l’inchiesta Mani Pulite avevano cambiato radicalmente gli equilibri della Prima Repubblica e le istituzioni risultavano pesantemente indebolite. Al contempo, è inimmaginabile – ma lo era già al tempo della sentenza di primo grado – che tutto si sia limitato ad un’iniziativa di Subranni, Mori e De Donno, senza una copertura politica di primo livello.
Nella sua complessità, la Storia repubblicana è piena di misteri e depistaggi, da Portella della Ginestra fino alla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. In mezzo a questi eventi si inserisce tutto l’indicibile della politica, di cui solo pochi soggetti sono consapevoli custodi. Alcuni di loro sono già passati a miglior vita, altri tacciono ostinatamente. E poi ci sarebbe anche un cittadino castelvetranese che da quasi 30 anni risulta introvabile, nonostante l’impegno di magistrati e forze dell’ordine che hanno dedicato gran parte della propria vita a cercarlo. Difficile credere che Matteo Messina Denaro possa continuare a sfuggire alla cattura soltanto grazie alla propria furbizia, senza l’aiuto di qualche rappresentante dello Stato. Eppure il boss di Castelvetrano ha seminato tracce, ha intessuto relazioni e contatti, come dimostrano le inchieste che hanno portato all’arresto dei suoi familiari e di numerosi prestanome che alimentavano i suoi affari e contribuivano alla sua latitanza. Arrestare Matteo Messina Denaro significherebbe avere tra le mani uno dei protagonisti più spietati della stagione delle stragi, con la sua memoria storica e il suo archivio da cui si potrebbe apprendere molto sui fatti di quegli anni, le responsabilità e le collusioni. Ma su questi aspetti, naturalmente, gran parte dei commentatori di queste ore preferiscono glissare, come se giustizia e verità fossero stucchevoli ossessioni e le vittime di mafia semplici danni collaterali di fronte alla supremazia della ragion di Stato.