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Il destino del Pd

Strano il destino del Partito Democratico. Nato con l’ambizione di rappresentare l’elemento centrale della politica italiana, mettendo assieme la tradizione del cattolicesimo sociale con quella della sinistra riformista e ambientalista, si ritrova periodicamente a raccogliere i cocci dei propri disastri. Il suo percorso di questi anni somiglia tanto a quello di un pendolo, che oscilla ripetutamente da una parte all’altra, vedendo alternarsi alla segreteria ex tesserati dei Ds (Veltroni, Bersani, Epifani, Zingaretti) ed ex Margherita (Franceschini, Renzi, Martina e ora, verosimilmente, Letta) con una prevedibile regolarità. Naturalmente, quando tocca ai primi, gli altri guidano l’opposizione interna, finchè i ruoli non si ribaltano nuovamente e di volta in volta sarà qualcun altro a rivendicare la titolarità della “ditta” o a sottolineare le altrui incapacità. Tutti i tentativi di affermare una classe dirigente che non ragionasse seconda la logica delle precedenti appartenenze sono miseramente naufragati e della vocazione maggioritaria dei primi tempi è rimasto ben poco, a guardare gli ultimi sondaggi.

Non è mai facile guidare un partito articolato e complesso, se poi aggiungiamo che in questi anni il Pd si è dovuto misurare con una devastante crisi economica globale, con l’irruzione del sovranismo sulla scena politica europea e con una pandemia, qualche attenuante gli va anche riconosciuta. Ma appare evidente l’incapacità di far diventare una ricchezza quel pluralismo interno che in altri contesti (un esempio, i democratici americani) è stato davvero un punto di forza. Da Roma a Palermo, la sensazione non cambia, anzi peggiora. Periodicamente, alle elezioni regionali vediamo candidarsi con regolarità (da Trapani a Siracusa) gli stessi volti che animavano le competizioni elettorali negli anni ’90, con quel surplus di trasformismo che in Sicilia non manca mai, a seconda di dove soffia il vento, autorizzando ingressi e alleanze scellerate che nel breve periodo possono portare qualche voto in più, ma che a medio termine mostrano prevedibili effetti collaterali, come avvenuto tra il 2017 e il 2018 con le candidature di Paolo Ruggirello sotto le insegne del Pd trapanese.

Anche tra i democratici locali, in queste settimane, si sta consumando l’ennesima resa dei conti, che dietro le questioni di principio o la difesa delle regole nasconde malamente la sensazione di un partito che pensa a tutto tranne che ai suoi elettori, con cui fa sempre più fatica a parlare e confrontarsi. Di fatto, la più grande sconfitta del Pd non è rappresentata dalle battaglie elettorali perdute, dai governi con Berlusconi e Salvini o dal logoramento dei suoi leader, ma dall’incapacità di interpretare il proprio tempo e di proporre alla comunità un’idea di futuro in cui rivedersi.

Non basta la difesa dell’Europa o delle istituzioni democratiche se non si associa anche la capacità di indicare una direzione per il futuro, di suscitare entusiasmo di fronte a un progetto di reale rinnovamento della proposta politica nazionale o territoriale. Non basta ragionare di aperture al centro o a sinistra, se non ci si arriva con una piattaforma programmatica coraggiosa e autorevole, né accontentarsi di vincere – di tanto in tanto – approfittando dei disastri altrui. Continuando così, la strada è segnata e la residua fiducia di tanti che hanno scommesso sul progetto a suo tempo lanciato da Romano Prodi è destinata ad esaurirsi lentamente.

Vincenzo Figlioli

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