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Il Villaggio di Fantozzi

Morto un Papa se ne fa un altro. Nelle gerarchie ecclesiastiche funziona così. L’arte e il cinema, invece, seguono criteri diversi. E quando un grande artista ci lascia, non ne arriva necessariamente un altro a prenderne il posto. Sfido chiunque a trovare un nuovo Mastroianni o un alter ego di Tognazzi, Volontè o Anna Magnani: sì, abbiamo in giro dei bravi attori (Elio Germano, Toni Servillo, Luca Zingaretti, Valerio Mastandrea, Sergio Castellitto), ma riuscite a immaginarne uno capace di lasciare un solco profondo nel costume e nell’immaginario collettivo come ha fatto Paolo Villaggio? Io, francamente, non ci riesco. Non tutto quello che ha fatto l’attore genovese scomparso ieri mattina è stato di qualità. Come molti “irregolari” dell’arte o della cultura, il suo estro si è acceso in maniera intermittente, regalando però dei colpi di genio inarrivabili. Su tutti, l’intuizione di costruire intorno alla figura di un impiegato statale impastato di paure e mediocrità la proiezione dell’italiano medio.

Con Fantozzi, Paolo Villaggio ha costruito un personaggio che, al di là della cornice farsesca in cui maturavano le sue vicende, continua a rappresentare un parte importante della fisionomia nazionale. Il ritratto feroce che Villaggio ne fece è degno, come è stato ripetuto più volte in queste ore, della migliore tradizione della commedia dell’arte. Ma Fantozzi era un personaggio molto più complesso di quelli che si erano visti in precedenza: non era un buono, non era migliore degli altri. Inteneriva la sua sfortuna, che portava a fare il tifo per lui: ma il personaggio costruito da Paolo Villaggio non era né un padre, né un marito modello, e pur soffrendo la logica del gruppo dei pari di cui era spesso vittima, non sarebbe mai stato solidale con un collega in difficoltà. Uno dei pochi slanci di dissenso e ribellione arriva, non a caso, contro il critico cinematografico che per l’ennesima volta tentava di spiegare la grandezza de “La corazzata Potemkin”: incapaci di una rivendicazione salariale o di una rinegoziazione degli orari di lavoro, Fantozzi e i suoi colleghi riuscivano a trovare un’improvvisa sintonia solo in uno sfogo populista contro i baluardi più elitari della cultura. Una rappresentazione per certi versi profetica di quello che quotidianamente ascoltiamo o leggiamo sui social, in un’Italia in cui mediocrità e ignoranza sono spesso rivendicate con orgoglio e la competenza viene sovente sbeffeggiata, mentre il potere – quello vero – continua a dormire sonni tranquilli.

In Fantozzi non c’è traccia dello stereotipo da “italiani brava gente” che aveva addolcito le commedie di Risi, Scola o Sordi. E difficilmente c’era un lieto fine. C’era (soprattutto nei primi film) uno spietato e onesto disincanto che rispecchiava molto l’animo di Villaggio e il suo modo di vedere gli italiani, con quei difetti che implacabilmente l’attore genovese riconosceva anche su di sé. Resta il rimpianto per un artista che dall’alto della sua grandezza avrebbe anche potuto dare di più negli ultimi anni della sua vita, reinventandosi in nuovi ruoli e nuove maschere. Ma la dipartita prematura degli amici con cui aveva condiviso i momenti di maggiore creatività (da Fabrizio De Andrè a Vittorio Gassman) lo ha lasciato sprofondare in una malinconia che gli ha impedito di inventare altri personaggi da regalare al suo pubblico. In fin dei conti, quel che resta è già tanto e non ha smesso di svelare quello che davvero aveva da dire.

Vincenzo Figlioli

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Tags: Paolo Villaggio