Mi interrogo da due giorni sulla foto del piccolo Aylan Shenu. Difficile non provare un grande senso di ingiustizia di fronte all’immagine che ritrae il corpo del bimbo che giace senza vita, sul bagnasciuga della spiaggia turca di Bodrum. Le regole deontologiche, a dire il vero, non ne permetterebbero la pubblicazione (almeno in Italia; in Messico, ad ogni incidente stradale i giornali pubblicano ogni giorno le foto dei cadaveri). Tuttavia, occorre ammettere che certe forzature hanno spesso avuto un ruolo importante per determinare cambiamenti radicali nella Storia del mondo. Su queste basi, la fotoreporter Nilufer Demir, immortalando il corpo di Aylan Shenu ha voluto quantomeno provare a dare una scossa a un dibattito pubblico in cui il populismo di chi vorrebbe “rispedirlo tutti indietro” o “aiutarli a casa loro” continua a sovrastare il realismo di chi si rende conto che i flussi migratori degli ultimi anni sono un fenomeno epocale, che non si può bloccare né sparando sui gommoni (come anni fa proponeva il “moderato” Casini), né costruendo nuovi muri o utilizzando spray urticanti (come sta facendo l’Ungheria). Né tanto meno marchiando le braccia di chi attraversa la frontiera in un sorta di revival neonazista che fa somigliare tanto gli agenti della polizia ceca ai custodi dei campi di concentramento tedeschi.
Mi chiedo però se questa foto servirà davvero. E non mi riferisco all’indignazione collettiva. Quella c’è e ci accompagnerà ancora per qualche giorno. Mi chiedo se riuscirà a dare ai governi la forza di superare reticenze e furbizie elettorali per cambiare le politiche sull’accoglienza. Al di là delle dichiarazioni di queste ore. Anche in passato abbiamo avuto ottime ragioni per indignarci, per pubblicare sui social fotografie ad effetto, citazioni colte, riflessioni articolate, convinti che i governi avrebbero capito che occorreva cambiare registro e che l’ennesima tragedia avrebbe persino commosso persino Matteo Salvini o Marie Le Pen. Ma l’illusione è durata poco. E, come abbiamo scritto anche in altre occasioni citando Fabrizio De Andrè, i governi e l’opinione pubblica si sono rivelati molto simili allo Stato di “Don Raffaè”, che “si costerna, s’indigna, s’impegna e poi getta la spugna con gran dignità”. Qualche dichiarazione di circostanza a buon mercato, l’utilizzo di toni un po’ più concilianti, e poi il ritorno all’usato sicuro dei soliti slogan e delle solite ricette che nulla hanno risolto in questi anni, in cui tanti, troppi avvoltoi della politica hanno strumentalizzato il tema dei flussi migratori per i propri interessi elettorali.
A pensarci bene, non avevamo bisogno dell’immagine senza vita di Aylan Shenu per comprendere l’esigenza di un atteggiamento diverso nei confronti dell’immigrazione. Basterebbe leggere i numeri: quest’anno sono morte in mare oltre 2000 persone (uomini, donne, bambini) che hanno tentato di attraversare il Mediterraneo. Esseri umani costretti a lasciare i loro Paesi per sfuggire alle guerre e alle persecuzioni, pur sapendo di rischiare di morire in mare. Non abbiamo avuto modo di conoscere i loro nomi, le loro storie o i loro volti. Ma le loro vite non erano molto diverse da quelle di Aylan Shenu, del fratellino e dei loro genitori. Riposino in pace loro, e tutti quelli che in questi anni hanno legittimamente provato a regalarsi una nuova opportunità. Fossero bambini o anziani, credenti o atei, africani o mediorientali, gay o etero, borghesi o proletari. Contestualmente, però, si pensi a chi non è ancora partito e si sta preparando a farlo. Secondo il Pentagono, nei prossimi vent’anni ci sarà un esodo di dimensioni mai viste. Ma se i nostri governi lo affronteranno ragionando come hanno fatto finora, finiremo per assistere a un nuovo Olocausto.