Un’ondata di sentimenti ci ha travolto nelle scorse ore dopo aver appreso la notizia della morte di Totò Schillaci. Malato da qualche anno, solo nelle ultime settimane ci ha sorpreso la paura di un epilogo che, purtroppo, si è verificato. Schillaci non è più tra noi ma sarà sempre lì, come lo è sempre stato, nell’Olimpo dei grandi campioni, dei nostri beniamini, di chi ci ha fatto sognare con una falcata rapace verso la rete avversaria. Nessuno ha dubbi su cosa sia stato e cosa rappresenti Schillaci per una Nazione Intera, dopo quelle “notti magiche”. Notti afose che ci hanno tenuto incollati al televisore, a fare il tifo per l’ultimo vero Calcio italiano, quello in cui contava ancora una maglia, l’abbraccio collettivo, l’appartenenza. Totò Schillaci per i siciliani era ben altro.
Era il ragazzino del Cep, una delle aree popolari più vaste e a rischio di Palermo, con il sogno di diventare calciatore e il peso di alzarsi presto la mattina per aiutare la famiglia in tanti lavori. La carriera di Schillaci è per lo più concentrata in quel Mondiale anni ‘90, in quel terzo posto come se fosse il primo, in quelle 6 reti impresse nella nostra mente, negli occhi sgranati e nelle braccia al cielo, “inseguendo un goal”, nonostante abbia vestito le prestigiose maglie di Juventus (26 le reti segnate) e Inter (solo 11). Una storia, quella di Totò, arrivata alle porte dei suoi 60 anni ancora da compiere, che racchiude modestia e coraggio, che è il sunto di quel “palla avanti e pedalare” da molti attribuito a Mario Sperone. E con la stessa umiltà – e dopo una parentesi nipponica che è stata più un celebrare un giocatore che in effetti sembrava un cartone animato – Schillaci a 33 anni ha posto fine alla sua carriera. Totò, “il gran visir di tücc i terun”, è l’idolo di tutti perchè è rimasto ancorato ai nostri ricordi, a quei ricordi. Durante Italia ’90, circolava una sorta di ‘motto’, poco elegante ma efficace. “Dio è grande ma Schillaci…”