A raccontarci una vicenda che lega la Sicilia a una fetta storica di marsala della fine del ‘700 è Antonino Sammartano, basandosi sulla Fonte RSI vol. 185 (Archivio di Stato Palermo).
Le origini del banditismo terrestre si perde nella notte dei tempi. Contro i briganti, in Sicilia come altrove, le autorità hanno sempre emanato leggi severissime, che spesso sono rimaste lettera morte, perché il popolo, o per paura o per simpatia, stava più dalla parte dei briganti che del governo. Il banditismo, pertanto, può essere considerato un fenomeno frutto del disagio sociale, che in certi momenti storici ha caratterizzato la storia della Sicilia.
Uno dei briganti, le cui imprese sono diventate leggendarie, fu Raimondo Sferlazza, vissuto nel primo trentennio del XVIII secolo. Nativo di Grotte, iniziò la sua carriera di brigante dopo aver ucciso l’assassino del padre. In seguito al quell’episodio abbandonò il seminario e si diede quindi alla macchia, e divenne presto un capo di una banda (una ventina di briganti) specializzata nel sequestro di persone benestanti.
Il sequestro del Barone Antonio Puccio di Petralia Sottana, il sequestro del Barone Pietro Figlia di Caltanissetta ( finito in modo tragico con l’assassinio del sequestro) e il sequestro del Duca Fici di Marsala furono solo alcuni esempi delle attività criminali della banda.
La sera del 15 novembre del 1726, alle ore nove, D. Antonio Fici Duca di Amafi si trovava nella sua casa di campagna (Baglio Catalano-Ciavolotto) in compagnia della duchessa sua moglie, del Cavaliere di Malta D. Vincenzo suo figlio, di D. Giacomo Grignano suo cugino, di un sacerdote di nome Placido e un certo Giacomo Martino, di 45 anni, capo Mastro delle “fabbriche” di Marsala. Nella casa vi erano anche pochi servitori. Improvvisamente comparvero in quel luogo cinque persone a cavallo, guidate dal bandito Sferlazza. Essi si posero davanti la porta della torre, da dove si saliva alle stanze del piano superiore. Uno di loro si impossessò delle armi, “dieci scopette”, che il Duca teneva in una stanza al piano terra, se li portò nel baglio e li fracassò per evitare che se ne servissero i proprietari. A un certo punto usciva dalla porta della torre Mastro Giacomo Martino, che stava per ritornarsene a Marsala; e mentre usciva dalla casa, uno dei banditi, che era di guardia proprio là davanti alla torre, gli sparò una “botta di fuoco” uccidendolo.
Il Duca e il resto dei presenti si asserragliarono nelle stanze del primo piano e si rifiutarono di scendere. A quel punto i briganti cominciarono ad accumulare della legna sotto le stanze della famiglia Fici e minacciarono di dare fuoco alla casa se il Duca non avesse pagato una somma di quattromila scudi. Ma il Duca non aveva in casa la somma richiesta, e per risolvere la questione incaricò il figlio Vincenzo Fici a trattare con i briganti. Quest’ultimo offrì cavalli, bestiame ed altro. Ma non si contentarono. E dopo una lunga trattativa decisero che il bandito Sferlazza avrebbe portato con sé D. Vincenzo Fici, e al pagamento della somma concordata ( 650 onze) il bandito avrebbe liberato il figlio del Duca. Dopo pochi giorni venne consegnata la somma pattuita e il Fici fu liberato.
In quegli anni il problema del brigantaggio nella Val di Mazara stava diventando un problema serio. Tanto che diversi memoriali di Borgesi e Massari di quelle terre furono inviati al Vicerè, in cui si lamentava della mancanza di sicurezza nelle campagne. Bande di briganti e di ladri spadroneggiavano in quel territorio commettendo furti e intimidendo i contadini. Pertanto (Massari e Borgesi) “supplicavano il Vicerè a voler dare rimedio à tanti mali”.Il Vicerè intervenne immediatamente ordinando al Tribunale di Palermo ad intervenire con efficaci provvedimenti al fine di restituire la serenità a quelle popolazioni.
Il Tribunale di Palermo immediatamente convocò Don Domenico Sterra, Capitano d’arme ordinario della Val di Mazara, al quale diede l’ordine di catturare entro 15 giorni il brigante Raimondo Sferlazza, capo di una compagnia , composta allora da circa 20 banditi, altrimenti l’avrebbe fatto arrestare, togliendogli il comando della compagnia.
Ma questo non fu l’unico intervento del Tribunale della Gran Corte nella lotta contro il brigantaggio. Dopo essere stato informato che la maggior parte dei banditi che formavano la banda di Sferlazza erano “Girgentiani ed Aragonesi” e che godevano della tolleranza dei Capitani di Licata , di Girgenti e nelle terre del sacerdote Ercole, fratello del principe Naselli d’Aragona, il Tribunale ordinava l’arresto dei Capitani delle suddette città se entro 15 giorni non avessero consegnato i banditi alla Giustizia, e di esiliare il sacerdote Naselli fuori del Regno.
Intanto le imprese di Raimondo Sferlazza continuavano. Il 17 marzo 1727 il Capitano di Aidone e il Capitano d’arme ordinario della Val di Noto comunicavano al Tribunale di Palermo che erano stati sequestrati da un gruppo di banditi Don Domenico e Don Ignazio Pellegrino, figli del Barono Pellegrino, e Don Santo Dimitrio di Catania, i quali si trovavano nel feudo di Parmentino, vicino ad Aidone. Essi, mentre si trovavano nelle torre del casale, videro arrivare 14 uomini a cavallo guidati da Sferlazza. Assieme a loro vi era un uomo legato a cavallo. Scambiandoli per ladri, si asserragliarono nella torre e si prepararono per la difesa.
Lo Sferlazza, appena arrivato davanti la torre , disse che era un capitano d’arme ed era venuto per arrestare i banditi che i fratelli Pellegrino nascondevano nelle torre. Intimoriti dalle minacce di Srerlazza, decisero di fare entrare il finto Capitano con i suoi uomini. Appena entrati, i briganti sequestrarono i tre e si presero 100 onze, un servizio d’argento e altra roba di valore che tenevano in casa. Poi se ne andarono portandosi il bottino e i due fratelli Pellegrino.
A questo punto il Tribunale di Palermo mandò a Girgenti il Capitanreale per catturare il Capitano di quella Città per aver tollerato la presenza di alcuni banditi nella. Diede altre 8 giorni di tempo a Don Domenico Serra, Capitano d’arme ordinario per catturare i banditi, altrimenti si doveva presentare in Tribunale per essere arrestato.
Infine, fra gli ordini che si diedero al Capitanreale vi fi quello di esiliare tutti i parenti dei banditi fino al quarto grado, in località distanti 100 miglia dai luoghi di residenza. In poche parole si voleva isolare, con qualsiasi mezzo, i banditi, togliendo loro qualsiasi tipo di collaborazione.
Dopo aver scorrazzato ancora per alcuni mesi, spargendo terrore , lo Sferlazza fu catturato e, dopo un processo sommario, venne giustiziato a Canicattì. E affinchè servisse da monito alle altre bande criminali, il suo corpo fu squartato e alcuni pezzi furono inviati nelle zone dove aveva commesso i suoi crimini pre essere esposti. La testa venne collocata in una gabbia di ferro esposta nel palazzo del Duca Fici nel Cassero a Marsala.