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Parco di Selinunte, così la mafia e la politica puntavano al patrimonio archeologico trapanese

Nell’ultimo interrogatorio alla primula rossa, reso pubblico da rainews24, è emerso l’interesse di cosa nostra verso i beni di valore storico presenti in Provincia di Trapani.

“Se vuole sapere come ho fatto i soldi, glielo posso spiegare”. Così Matteo Messina Denaro, a capo della consorteria mafiosa nella provincia di Trapani, inafferrabile per un trentennio, si è rivolto al giudice per le indagini preliminari durante quello che è stato considerato il suo ultimo interrogatorio prima di lasciare questo mondo. Il Gip, Alfredo Montalto, ha risposto alla proposta dell’ex latitante in tal modo “Siamo qui per ascoltarla”. L’esame integrale della primula rossa è stato da qualche giorno reso disponibile da rainews24.

Nel corso, dunque, della serie di domande rivolte al boss di Castelvetrano è emerso l’interesse di cosa nostra verso i beni di valore storico presenti nel territorio trapanese. Matteo Messina Denaro, pertanto, ha spiegato che il patrimonio economico acquisito e accumulato dalla sua famiglia non deriverebbe dai reati gravi, ma da quello che lui ha sottolineato essere “un reato da niente”. Ed è a questo punto che ha menzionato il Parco archeologico di Selinunte dove, da sempre, si sarebbe svolta l’attività illecita dei cosiddetti tombaroli. Poi, l’ex capomafia ha continuato affermando che il padre, Francesco Messina Denaro, sarebbe stato un mercante d’arte, occupandosi però soltanto di archeologia. Per l’ex latitante tutti i cittadini di Selinunte, un migliaio circa, sarebbero stati coinvolti nel corso del tempo nel traffico di beni archeologici. Avrebbero scavato sia di giorno, al servizio della Sovrintendenza siciliana, che di notte, per il traffico illecito di oggetti d’arte, tra cui pezzi di ceramica antica e monete d’argento di origine greca, custodite dentro vasi millenari. I “truvatura”, cioè i menzionati contenitori di monete, come li ha definiti l’ex capomafia, a partire dalla fine degli anni ’70 sarebbero stati otto, sette dei quali finiti nelle mani di don Ciccio Messina Denaro. Poco più che sedicenne, dunque, la primula rossa avrebbe assistito ad un affare del padre con una famiglia interessata a tali preziosi. Precisamente, il boss ha sottolineato che la stessa sarebbe stata composta da quattro persone, ovvero, la coppia e i due figli che l’avrebbero accompagnata: un ragazzo e una ragazza. La trattativa sarebbe stata conclusa relativamente ad un primo blocco per un valore di 800 milioni di lire, prezzo stabilito dal padre del boss castelvetranese che avrebbe ricevuto un assegno per suddetta cifra. Ogni settimana poi gli acquirenti avrebbero ritirato monete per un valore di 50 milioni di lire. Una volta saldato il debito, l’assegno come pegno sarebbe stato strappato. La primula rossa ha dichiarato inoltre che si sapeva che ciò che si trova sotto il suolo appartiene allo Stato, ma ha aggiunto “A noi, non ci interessava se apparteneva allo Stato. A chi si faceva del male?” Con l’affare della vendita di beni archeologici, l’ex latitante avrebbe quindi accumulato 20 miliardi delle vecchie lire, regalati dal padre, poi investiti in altre attività, come quella dei supermercati di Grigoli Francesco. Quindi, Matteo Messina Denaro avrebbe impiegato i suoi soldi in tal modo fino al 1993, anno di inizio della sua trentennale irreperibilità, in quanto sarebbe stato pericoloso farsi riconoscere o mettersi in una situazione di ricatto, cosa che, a suo dire, avrebbe reso più facile la sua cattura.

Che il parco di Selinunte facesse gola a chi avesse voluto portare avanti illeciti interessi economici, lo si è appreso di recente anche grazie all’inchiesta c.d. Scrigno, la quale, tra le tante cose, ha fatto emergere il rapporto instaurato intorno al 2014 tra l’allora aspirante consigliere comunale di Castelvetrano, Calogero Giambalvo, detto Lillo, arrestato per estorsione nei confronti di un imprenditore la settimana scorsa, e l’ex deputato regionale Paolo Ruggirello, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa nel corso del 2023. Nell’ambito di una conversazione intercettata tra i due, l’ex politico dell’Assemblea Regionale Siciliana avrebbe comunicato al suo interlocutore che vi sarebbe stato in atto un progetto che riguardava il sito archeologico, mediante il quale entrambi avrebbero potuto “strummintiari”, ovvero, ricavare qualcosa da cui trarre diversi guadagni. All’interno del parco archeologico, pertanto, Giambalvo, nipote di Vincenzo La Cascia, pregiudicato mafioso di Campobello di Mazzara, avrebbe voluto fare un investimento su un punto di ristorazione per il cui iter di realizzazione avrebbe necessitato dell’appoggio di un onorevole regionale, Ruggirello per l’appunto, e di un amministratore locale, come l’allora sindaco di Castelvetrano Felice Errante. La costituzione di un punto self-service, all’interno del sito archeologico, avrebbe avuto bisogno anche dell’ok di cosa nostra. Detti contatti, ossia “i cristiani giusti” asseriti dal Giambalvo nel corso di un dialogo con tale Saraò, captato dagli investigatori, sarebbero già stati dalla sua parte, consentendogli pertanto di poter lavorare in serenità. Prima di dire “Sì” all’ex parlamentare regionale, Giambalvo si sarebbe mosso per chiedere, quindi, i permessi ai soggetti legati al mandamento mafioso della zona. Tra questi, l’ex consigliere comunale avrebbe evocato i “cristiani c’un ci sunnu” (persone che non ci sono), riferendosi all’allora latitante Matteo Messina Denaro. Il progetto lucroso, comunque, non avrebbe visto luce, anche se le ricostruzioni degli investigatori hanno messo in evidenza che un accordo Ruggirello-Giambalvo si sarebbe fondato su basi evidentemente realistiche. Il fatto che detto patto non si sarebbe poi concretizzato, per gli inquirenti andrebbe imputato al lungo iter autorizzatorio, dal momento che le competenze dalla Sovrintendenza regionale non sarebbero state poi trasmesse all’ente locale. Infine, sarebbe sorto anche un ostacolo in più: l’arresto di Giambalvo nell’ambito dell’operazione “Eden II”.

Linda Ferrara

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