Fulcro tematico di questo intervento critico è l’analisi del volume di racconti “Trame tradite” della scrittrice siciliana Bia Cusumano (Navarra, 2023).
Il dato biografico, in Cusumano, permea la concezione stessa dei racconti, ciascuno dei quali esplora diversi aspetti del femminile in una chiave che mescola una decisa vena lirica a elementi di carattere antropologico. Cusumano, forte della propria esperienza lirica, si dà alla narrativa trasferendo nella prosa tutte le connotazioni di una personalità impegnata a difendere i valori della vita e dell’arte. Emerge, dai testi, l’immagine di una Sicilia che, ferita da secoli di sopraffazione e fatica, si configura allo stesso tempo come il doppio dell’autrice: le donne, in un contesto dove vigono il culto della famiglia e aspetti svalutanti il femminile, rinviano a un senso di grazia e determinazione spesso incrinato dalla fatica ad affermarsi contro il dominio di una cultura fortemente maschilista e utilitaristica.
Ciononostante, l’utilitarismo bieco che talora caratterizza la cultura siciliana, appare del tutto dominante nelle generazioni posteriori a quelle che invece sono depositarie di antichi riti e salde tradizioni, capaci però di preservare il senso del sacro, della bellezza. È il caso di Riccardo, uomo fedifrago e dotato di una certa capacità affabulatrice, il quale ammette, come deresponsabilizzandosi da ogni colpa, di non essere all’altezza di una donna come Giuliana, devota all’arte e per questo complessa, sfuggente ai canoni che vorrebbero invece ingabbiare il femminile e vincolarlo alla casa:
«Lo so a quali parole alludi. Ti allontanai durante quell’ultimo bagno che facemmo sotto i templi. Sono orgoglioso e forse coglione, ma sono un uomo intelligente. Hai pensato che abbia cercato di essere un uomo migliore per lei e non ci sono mai riuscito per te. Lo so. Sono stato un codardo a non dirti la verità quando avrei dovuto. Non volevo perderti all’inizio, ma ero disperato e poi, a un certo punto, volevo dimenticarti, andare avanti, provare a essere felice senza di te. E lei era lì, semplice, essenziale, senza troppe pretese e pensieri sofisticati. Non si faceva domande, sapeva tacere, stare al suo posto. Lasciava tutto il palco e le luci per me. Era una storia semplice, a parte la figlia, lo capisci? Poi mi sono incastrato, non so come e perché. È accaduto. Ti ho persa e mi sono convinto fosse la cosa migliore. Tu sei una donna così impegnativa, non puoi negarlo. Ero stanco di soffrire, di avere sempre tutti contro per te. Volevo la mia normalità. Sì, volevo essere spensierato, ridere, giocare a racchette, far tardi la notte, ballare, uscire, fare viaggi. Sì, sono stato a Ischia, Capri, Roma, Catania, ho girato ovunque senza di te. È vero. Volevo non pensare, divertirmi. È stata una reazione disperata a tutto il dolore. Io non credevo però finisse così male.»
Da notarsi, all’interno del racconto Centoundici gradini, il cui titolo induce a pensare alla lirica montaliana Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, contenuta in Satura e dedicata a Mosca, pseudonimo della moglie Drusilla Tanzi, il richiamo al mito odissiaco: l’amore che per Giuliana è un’Itaca cui cercare di tornare malgrado le vicissitudini, tradito nella sua purità dallo stesso Riccardo-Ulisse, lasciatosi ammaliare dal canto di una “sirenetta”:
«Riccardo, per piacere, con i tuoi “vorrei” hai costruito e demolito la nostra storia.Vorrei una figlia, vorrei sposarti, vorrei la nostra casa, vorrei che mi capissi, vorrei capirti, vorrei che i miei genitori accettassero, vorrei non provare quest’inquietudine, vorrei mi rispettassero di più… Per piacere, di tempo ne è trascorso! A questo punto, poco importa se mi sposo e con chi, non pensi? Se mi avessi amato sul serio, al dito porterei il tuo di anello, quello che non hai mai avuto il coraggio di regalarmi. L’uomo d’affari, che tu disprezzi, riesce a darmi quello che non hai mai voluto avere con me. Non hai saputo: cazzate! Chi ama riesce. Tutto qui. Le mie sono state inevitabili scelte, ma non per ripicca o vendetta. Lo dimostrano la tua sirenetta dai capelli biondi con figlia al seguito: menzogne, inganni con cui mi hai preso per il culo per un bel po’. Fedeltà, Riccardo, ti chiedevo solo di essere fedele all’amore.»
La devozione di Giuliana all’esperienza amorosa molto rammenta quella dei poeti della Scuola Siciliana, il cui servitium amoris può ritenersi compiuto solo a patto che l’amore riesca a veicolare in sé la fedeltà ai valori della vita e del canto:
Como l’argento vivo fugge ‘l foco,
così mi fa del viso lo colore
quand’eo vi son davanti in nessun loco,
per domandarvi, bella, gioi’ d’amore;
veggendo voi, ardiment’ho sì poco,
ch’io non vi saccio dicer lo mio core;
così, tacendo, perdo d’aver gioco,
se voi non fate come ‘l bon segnore,
che ‘nanti ch’om chieda si n’avede,
cotant’ha in sé di bona conoscenza,
la’nde lo servidor non è perdente:
lo domandar non noccia a chi ben crede,
poi che a lingua cherir agio temenza,
e co lo cor tuttor vi son cherente
Jacopo da Lentini, nel sonetto “Como l’argento vivo fugge ‘l foco”, ben esprime il senso dell’amore come esperienza totalizzante, cui legarsi con un vincolo di fedeltà, idealizzando la donna amata nelle vesti di una creatura perfetta e irraggiungibile. Nondimeno, a dispetto dei poeti della Scuola Siciliana e poi anche di quelli stilnovistici, per i quali l’amore può risultare un’esperienza disgregante, le donne raccontate da Bia Cusumano, pur aderenti a una visione talvolta fortemente idealizzata delle cose, restano salde a loro stesse, devote alla “religione della bellezza”. Da questo punto di vista, assai frequente è il ricorrere di termini che ben segnalano anzitutto il legame di Cusumano con la Sicilia. Quest’ultimo non è da intendersi quale mero senso di identificazione culturale, quanto di appartenenza identitaria a tutto ciò che la Sicilia ha filogeneticamente trasmesso di generazione in generazione, ovverosia la devozione alla luce, alla vitalità del sole. Ma, come ricorda Bufalino, questa appare per i siciliani contraddetta dal fosco della morte, percepita come un fatto innaturale, in antitesi con le leggi della vita:
Si aggiunga che il siciliano soffre come nessuno la doppia inverosimiglianza della vita e della morte: della vita, che per eccesso di sole brucia, talvolta, e svapora in un trucco di abbaglianti fate morgane; della morte, che con lo squallore e lo scandalo delle sue gramaglie contraddice incredibilmente la vita.
E in effetti, assai rilevante appare il racconto “Micciò”, incentrato proprio sul tema della morte e dell’amore come pegno che salda la vita:
Una mattina mentre era in classe a fare lezione, arrivò una chiamata al liceo: suo padre respirava male.Il collaboratore scolastico le disse: «Professoressa, ha chiamato suo fratello da casa, dice che suo padre non sta bene. Vada, avviso subito la referente di plesso. Nella classe, intanto, ci resto io.» Fiorenza riuscì appena a ringraziare e corse, corse come non mai, mangiandosi i gradini della scala del liceo. In strada correndo all’impazzata in bicicletta all’improvviso pensò: «Mio fratello?… E quale dei due, se uno è a Palermo e l’altro a Catania?» In effetti non aveva chiamato il fratello al liceo, ma un vicino di casa, il dirimpettaio, il marito della badante che aveva sempre voluto un gran bene a quell’anziano. Arrivò a casa tutta trafelata e pallida che sembrava un fantasma e trovò un vero inferno: l’ambulanza, gli infermieri, la badante in lacrime e i vicini accorsi dalle case adiacenti. Melchiorre aveva avuto un ictus e si era spento in pochi minuti. Tutti dicevano senza neanche averlo capito e sofferto. Se ne era andato prima della sua Lina, seduto sulla sedia vicino a lei, secondo il suo ultimo desiderio. Se ne era andato senza dare quello strazio alla moglie e senza disturbare i figli maschi che si erano precipitati lì appena avevano saputo, abbandonando per pochi giorni le loro brillanti carriere per dare l’estremo saluto al padre. Fiorenza accarezzò il viso al vecchio e gli sussurrò: «Hai visto? Te ne sei andato prima tu, così la mamma non muore di pena.»
I genitori figurano, agli occhi di Fiorenza, come radici di un sistema di riti e tradizioni nei quali si incarna la devozione alla bellezza e alla vita ma in cui i figli maschi, ormai in carriera, Luigi e Baldo, sembrano più non riconoscersi. Micciò è figura-simbolo della paziente lotta contro le avversità della vita: votato al sacrificio e all’abnegazione di sé, egli ha vissuto nella promessa di precedere nella morte l’amata moglie Lina, affetta nella vecchiaia di Alzheimer. Tuttavia, la morte lo ha colto prima di quest’ultima, la quale, apparentemente immemore di ogni cosa e non senziente, contraddice la disincantata visione dei figli, rinvenendosi per un istante nella consapevolezza della perdita e del dolore:
Mentre Fiorenza si alzava straziata, si sentì decisa e sicura una voce: «Micciò! Micciò!» Lina aveva appena pronunciato poche sillabe, quelle del nome del marito. Aveva allungato la sua scarna mano verso la sedia di Melchiorre e aveva lasciato la sua mano lì per giorni anche dopo i funerali del marito. Quella voce nella stanza l’avevano sentita tutti. Fiorenza, Luigi, i vicini, la badante e suo marito. Fiorenza guardò il fratello medico: «L’hai sentita pure tu, vero?», disse. «Sì, l’ho sentita. Ma non chiedermi spiegazioni scientifiche, Fiorenza, non ne ho.» «Perché non ce ne sono, Luigi. Mamma non parlava più da tempo e qui lo sapevamo tutti. So cosa sia l’Alzheimer, non ci vuole necessariamente una laurea in medicina per saperlo. Ma vedi, Luigi, l’amore con la tua scienza e le tue logiche e razionali spiegazioni non c’entra proprio nulla. L’Amore non è fatto di neuroni e sinapsi. E mamma ti ha insegnato oggi qualcosa che sui tuoi manuali di anatomia non troverai mai. L’Amore non si spiega. E non scorda.»
A dispetto della visione “arida e cinica” in cui sembra essersi arenata l’esistenza dei figli, Lina dimostra che neppure la malattia è in grado di scalfire la memoria dell’amore. Baldo e Luigi, sradicandosi dal contesto natio, hanno in parte tradito i valori su cui invece i genitori avevano con amore costruito la loro vita. Essi non possono riconoscersi in quel che invece Fiorenza crede, proprio perché sono stati travolti, come ‘Ntoni, dalla “fiumana del progresso” e dall’illusione che la felicità dipenda da logiche economiche basate sul profitto e sul successo di carriera:
«Fai la sperta tu, Fiorenza!», le diceva sempre Baldo, l’avvocato che era rimasto a Catania a gestire uno studio legale associato di cui era titolare, «E lo sai perché? Perché non ti sei mai sposata. Sei rimasta qua, a fare la docente di liceo, con la testa tutta piena di poesia, di filosofie romantiche. Ma la vita reale non è questa! La vita reale non è fatta di sogni e desideri, quelli che forse insegni ai tuoi alunni. La vita reale non è fatta di tutto quell’amore di cui parli sempre tu come ne fossi la sacerdotessa! Queste lezioni le potrai al massimo fare ai tuoi adolescenti, che forse loro ancora ti possono calare la testa. La vita reale è fatta di titoli, concorsi, master, specializzazioni, la carriera che ti porta profitto! Soldi, sorella, soldi, quelli con cui poi ti compri le case, le macchine, ti fai i viaggi in giro per il mondo, le cene nei migliori ristoranti e – perché no? – le donne. Leggerezza, Fiorenza, leggerezza! Non ho studiato una vita per stare a parlare d’amore. Mi sono ammazzato di studio per essere il migliore avvocato di Catania, ci sono riuscito e guadagno nu futtìu di soldi! Papà e mamma non ci hanno fatto studiare all’Università per scrivere poesie, ché il pane non te lo danno! Penso lo abbiano fatto per altro. Sei pesante, Fiorenza! Ma ancora a quarant’anni non l’hai capito che l’amore non esiste? Trovati uno ricco e affermato che ti porti i bei soldi a casa e smettila di andare al liceo in bicicletta!» «In effetti Fiorenza», aggiungeva sempre Luigi, il medico, che dopo appena due anni di matrimonio aveva divorziato dalla moglie vivendo ora i guai di avere una figlia a metà e una carriera da portare avanti al Policlinico, «papà e mamma sono un’eccezione, questi amori non esistono più. Pensa che ora la mia ex moglie mi ha trascinato in giudizio, ha chiesto un mantenimento pari a circa la metà del mio stipendio e mi fa la guerra riempiendo la testa a Giada di cose orribili contro di me. Nostro padre non lo avrebbe fatto mai. Baldo non sa esprimersi nel modo più delicato possibile, ma vuole indurti a riflettere, vuole dirti che per te che non hai un marito o un figlio è tutto più semplice ma che se poi ci passi tu attraverso le cose non è tutto così rose e fiori l’amore. Lo so che papà e mamma sono stati un grande esempio per tutti noi ma, guardaci… siamo in tre e due di noi sono divorziati, tu sei single. Forse ha ragione Baldo che l’amore è fatto di interessi, convenienze e convenzioni.»
La poesia è slegata da mere logiche economiche. In un contesto come quello siciliano, evolutosi con ritardo e ancora segnato da uno stato di arretratezza socio-politico ed economico rispetto ad altre regioni d’Italia, la cultura del lavoro, specie quello fisico, ha plasmato una mentalità improntata a difendere l’idea che il lavoro intellettuale non implichi fatica né frutti guadagno. Per Cusumano l’arte ha le caratteristiche del sacro, perché è in essa che una data cultura esprime tutta la propria vitalità. La scrittura è, tra le tante incombenze quotidiane, un riparo sicuro, materno, cui ritornare ogniqualvolta si intenda opporsi con ferma volontà al male. È segno di questa concezione il racconto “La ladra”, dove la protagonista, Giovanna, ha un confronto assai significativo con l’alter-ego oscuro della malattia, Lara, per l’appunto “la ladra di vita”:
Giovanna, bevve la sua tisana. Poi disse: «Ma tu lo sai bene, Lara. Anche in quel lungo periodo ci sei stata: più fedele del mio fidanzato. Sempre presente, a ogni ora. Eri lì, tra farmaci oppiacei per lenire il dolore, risonanze magnetiche, collari, iniezioni, flebo… Mi imboccavano, ricordi? Non potevo nemmeno lavarmi da sola né vestirmi, altro che capelli scomposti! Non potevo stare né seduta né a letto né potevo camminare.Un delirio incompreso di atrocità senza fine. Quasi due anni, Lara, quasi due anni. E non mi hai accompagnato sempre tu in tutte quelle sale di attesa? Non mi hai spiato di soppiatto quando mi spogliavano per infilarmi sotto la doccia e mi lavavano come una bimba inerme e io piangevo disperata e avvilita per i dolori che nessun farmaco riusciva a farmi sopportare? E non c’eri tu quando per lunghi mesi ho dovuto indossare il collare che mi irrigidiva tutti i muscoli e non mi dava tregua, pur nutrendo la speranza che le ernie a poco a poco rientrassero, considerati la giovane età e l’esiguo peso? Non c’eri ancora tu quando non bastavano mesi di congedo per riprendermi e la malattia, oltre che le ossa e i muscoli, mi divorava anche lo stipendio? Tanto si era ridotto che, se non ci fosse stato mio padre a comprarmi i farmaci, sarebbe divenuto un lusso che non avrei potuto permettermi.» La voce di Giovanna diventava sempre più tagliente, stizzita. A un certo punto iniziò lei a incalzare Lara: “Non ti ricordi che tutto questo accadeva sotto gli occhi increduli di chi mi guardava? Sotto gli occhi di chi ha sempre creduto fossi cosa? Ansiosa? Preda di attacchi di panico? Ipocondriaca? Pazza? Fino a sospettare perfino che mi comportassi così per attirare tutte le attenzioni su di me, per risparmiarmi la fatica di lavorare, per il mio poco senso del dovere! Cos’altro, Lara? Tu che sai tutto di me, dimmi! Cosa hanno creduto fosse per una vita intera questa patologia?» Lara la guardò senza alcuna compassione, dritta negli occhi che divennero di brace: “Non lo so cos’hanno creduto, Giovanna. Ma di sicuro, una malattia che non si vede, non esiste. Non esiste per nessuno! E forse hanno creduto che tu abbia fatto di tutto: una sorta di gioco perfetto nella tua vita per avere l’amore che ti è sempre mancato, le attenzioni, i privilegi, un lavoro vicino casa rubato ad altri! Certo, questo è poco ma è sicuro, non ti hanno mai creduto. Nemmeno dopo gli svenimenti, le cadute camminando per strada, dalle biciclette, dalle scale, dopo gli incidenti in macchina, i lividi ovunque. Anzi, visto che svenivi in continuazione, piuttosto che avere una brutta ernia cervicale, una volta hanno creduto che tu fossi incinta! Che ridere! Me ne sono fatte di risate, credimi, in questi anni, quando la dose rincarava e tu imperterrita e indomita ti rialzavi, inghiottendo bocconi amari, umiliazioni, svilimenti, abbandoni, tradimenti e, senza mai arrenderti, ti ricomponevi il cuore, l’anima, il corpo distrutto e tornavi a sorridere. In verità, credevo che prima o poi ti saresti fermata stremata e mi avresti lasciato campo libero. E invece niente, neppure adesso! Ho cercato di toglierti tutto: dignità, famiglia, lavoro, amici e di scatenarti addosso giudizi, condanne, soprusi di ogni genere… ma tu niente. Immobile, sotto tutti i colpi che ti sferravo! E allora io infierivo di più e ti bastonavo ovunque, ti umiliavo di più in ogni modo, rubandoti amici e amori (perché una ammalata, che non è in grado di badare a sé stessa, come fa ad essere buona per gli altri? Insomma, una zavorra, un peso è!), ti umiliavo di più! Il lavoro poi, sì lo ammetto, ho fatto di tutto per fartelo perdere… ma tu niente, neanche lì ti sei scomposta. Suvvia, parliamo ormai a carte scoperte: Giovanna, sono qui per dirti che io non mi fermerò mai, non mi arrenderò mai, io non potrò che peggiorare con il tempo e tu lo sai benissimo. Sono qui perché, magari davanti a una tisana ai frutti rossi, questa volta possiamo trattare la tua resa. O vuoi che continui a tirarti calci e pugni, a farti cadere e a farti schiantare ovunque ancora e ancora? E oggi un piede, domani una costola, e poi il collo, i nervi, i muscoli, le ossa e a poco a poco tutto il resto? Vuoi davvero che io continui indisturbata e invisibile mentre gli altri non sanno nulla di quello che realmente ti accade e, per giunta, non solo non ti credono ma finanche ti prendono in giro e ti giudicano una bugiarda seriale, una pazza, un’egocentrica, un’ipocondriaca, una narcisista manipolatrice, una persona con dinamiche disturbate? Povera e ingenua donna! Dai, fermiamoci qui. Firma la tua resa, Giovanna. Un corpo solo per due non va! E io non ho più alcuna intenzione di dividerlo con te oltre. È da quando sei una bambinetta di otto anni che ti covo dentro in silenzio, attendendo il momento opportuno per esploderti e prendermi tutto! Tutto io, capisci? Ma ti sei trovata perfino la scrittura, per sopravvivere! Proprio non ti arrendi e io mi sono rotta: voglio ciò che mi spetta! E non un corpo a metà da condividere con te. Sei una sfrontata, tu! Ma dove la vedi tutta questa bellezza, nella tua vita? Se ti ho tolto a poco a poco, come fossi un roditore, tutto?»
Il tema della malattia, affrontato anche nel racconto “Micciò”, offre alla scrittrice la possibilità di riflettere anzitutto sulla spinta vitale che proviene dal senso di appartenenza alla Bellezza. Nulla, neanche la malattia, può scalfire tale senso di devozione, che riconduce Cusumano a guardare con meraviglia alle proprie radici e ai valori ravvisabili in essi. La malattia, poi, quando invisibile, alimenta lo stigma sociale, crea diseguaglianze economiche, pone di fronte all’ancestrale terrore della morte e dell’impotenza. Essa investe in ogni grado corpo e mente, ma per l’autrice non ha potere alcuno sulla fedeltà alla vita e al canto. D’altronde, ogni cosa è degna di essere cantata se osservata con lo sguardo di chi si affida all’invisibile. Il profumo dei limoni, che sin dall’inizio dell’opera incornicia la narrazione, rievoca una fede indissolubile nella Bellezza, idealmente destinata a perpetuarsi nel cuore di ogni uomo:
Erano i miei nonni. Entrarono con i limoni freschi. Nonno Marco li aveva appena raccolti. Nonna Giovanna aveva le sue solite collane, il suo immancabile foulard, i capelli acconciati con le mollette, un velo sottile di trucco, il profumo di sempre, il mezzo tacco perché lei era già abbastanza alta, il nonno un po’ meno. Ma dietro c’era anche nonno Vito, il mio più grande lettore insieme a nonna Giovanna. «Ma vero per i limoni siete venuti?» «E tu sempre scrivi? Ti lassamu accussì, scrivennu, sono passati quanti… venti anni e scrivi ancora?» «Sedetevi, nello studio di papà per fortuna ci sono le sedie per tutti. » «Sì, vinnimu per i limoni. Per ricordarti a chi appartieni. Te lo ricordi l’albero che abbiamo piantato quando eri una picciridda?» «Certo, nonno, lo hai piantato tu con le tue mani, infatti papà quando ha ereditato questa casa ha restaurato tutto ma non ha toccato di un centimetro l’albero di limoni. Dice che rappresenta l’amore che gli avete dato tu e nonna Giovanna e che l’albero, qualsiasi cosa accada, non si tocca. Quando un po’ si intristisce pensando che il tempo passa per tutti, mi dice: “vedi quell’albero di limoni, te ne devi prendere cura. In una casa sempre servono i limoni freschi e questi sono quelli di mio padre”. Gliel’ho promesso». E le promesse si mantengono, figghia bedda», sottolineò mia nonna. «Vi abbraccerei, mi siete mancati tanto. Ma come mai mi avete fatto questa sorpresa, questa notte? Senza voi mi sono sentita così sola. Mi sono mancati i biscotti impastati fino all’alba e l’olio fresco appena molito, i gerani della nonna e i crisantemi raccolti a novembre. Tutte le volte che tornavo da scuola o quando uscivo dalla mia stanza con l’ultimo racconto e il nonno mi diceva: “Ora mi siedo che tanto lo so che hai scritto”. Mi sono mancate le vostre parole di incoraggiamento per andare avanti, tra studi, concorsi, gavette e delusioni. Mi sono mancati i vostri sguardi, e la dolcezza che è stata casa senza giudizio e senza colpa. Non voglio che ve ne andiate. Ho dovuto fare tutto da me, ma forse mi avete amato così tanto che non c’è molecola del mio corpo che non porti impressa il vostro bene».
Qualcosa di atavico è contenuto nel culto della Bellezza, cui sono associate le idee del bene e dell’amore. Inoltre, chiunque in sé ne abbia il germe, risulta in grado di riconoscerne traccia nell’altro: la Bellezza è in tal senso un tratto distintivo, che infonde unità all’esperienza. Cusumano è vista nella rete di affetti che la avvolge dedita alla scrittura, quasi il senso della sua vita fosse tutto sintetizzato nell’obiettivo di innalzarsi e custodire qualcosa di inviolabile ma presente nelle radici di ogni essere umano. E tuttavia, molti sono i condizionamenti ambientali che potrebbero limitare la vena creativa della scrittrice, come ricorda, in un passo assai celebre, Giuliana Saladino:
Ma come scrive una donna? A lassa e pigghia, lascia e piglia, lascia e piglia, interrotta venti volte, suona il telefono si perde il filo, si ricomincia, suona il citofono, tutto daccapo, ora suonano alla porta, ma figurati, vieni, non facevo proprio nulla, riprendo, aspetta, la pentola a pressione fischia, ora scrivo questo, un momento, suona di nuovo il telefono, accidenti, lo metto di là, ma intanto arrivano i giornali, un’occhiata, e la lavatrice ha finito, stacco la spina, riaccendo il bagno, stendo? No, non stendo, domani ci pensa Grazietta alla biancheria, rileggiamo, ben concentrata… Nonna, posso venire? Sì amore, anche subito. Tanto per oggi non si combina più niente. L’indomani: che dici, ce ne andiamo in campagna? Pronti, andiamo. Un altro giorno c’è una qualche spesetta, anche se riduco poi sempre le liste più lunghe a pane formaggio e sigarette, quando c’è questo siamo a posto. Suvvia da brava, rileggi e scrivi, e ricomincia il citofono la porta il telefono, un giorno ho contato dodici interruzioni in un’ora e diciamolo pure che io ci stavo, mi lasciavo usare, perché in fondo tutte le scuse sono state buone, finiamola con gli alibi e il vittimismo, si fa di tutto pur di non scrivere di cose che dolgono [9].
Nonostante la propensione lirica, anche Cusumano si presta alla denuncia sociale, come nel racconto “Rose rosse”, dov’è narrata la storia della maturanda Gaia che, dopo essersi ubriacata e aver perso conoscenza, si ritrova nuda in un letto piena di macchie e lividi:
«Emma, sto malissimo, avrò esagerato con l’alcol ieri notte, vomito e mi gira tutto, mi vieni a prendere? sono all’albergo Salinas.» Riattaccò. Man mano che la luce filtrava nella stanza riusciva a mettere a fuoco meglio quello che c’era dentro e attorno al letto. Non era un bello spettacolo. I suoi slip e il suo reggiseno erano stretti e avvinghiati come fossero una lunga corda di stoffa. Il suo abito da sera senza più lampo, sdrucito e con l’orlo strappato. Le lenzuola tra vomito e macchie rossastre, forse l’eccesso di rossetto. Di sicuro i baci focosi del suo Gianluca. Aveva proprio esagerato. C’erano confezioni di preservativi per terra. Ma se con Gianluca ancora non l’avevano fatto? Lui glielo aveva chiesto insistentemente parecchie volte, lei non si era sentita ancora pronta. Allucinazioni. Erano allucinazioni. Doveva essere ancora ubriaca fradicia. «Apri la porta Gaia, sono io!» Emma bussò insistentemente. «Guarda che anche io ho una vita e dovrei andare a lavorare, tocca a me oggi gestire l’azienda, mica tutti facciamo i bagordi la notte come te!» Sì, eccola Emma, con il suo rigore e inflessibilità sul mondo del lavoro. Peccato che non tutti avessero però ereditato l’azienda di famiglia come era toccato a lei e a suo fratello. «Non ce la faccio ad alzarmi, vomito, mi gira tutto, e in questa stanza c’è il delirio, ti prego mi brucia tutto, sto troppo male, chiedi la copia della chiave alla hall. Ti prego!» «E Madonna Santa, signorina bella! Tutti ci siamo ubriacati almeno una volta nella vita, sai che spavento! Si vede che sei tipa da libri e non da nottate, tu! Va beh, vado, dai!», replicò incazzata come non mai. Era luglio e il caldo iniziava a diventare invivibile. Bisognava trovare il telecomando dell’aria condizionata, perché sentiva un bruciore e un caldo pazzesco, da perdere i sensi.
«Sarà sotto il letto pure il telecomando?», si chiese quasi quasi ridendo in mezzo a tutto quel pasticcio.» Il rumore delle chiavi annunciò Emma. Finalmente in stanza sbarrò gli occhi: «Mio Dio, che ti hanno fatto?» Le parole rimbombarono nella mente confusa di Gaia che no, non ricordava niente, rispose. E poi che cosa le avrebbero potuto fare? e chi? Colpa sua che aveva esagerato con l’alcol in una notte di sballo eccessivo. Gaia guardò Emma tra il vomito, il rossetto sbavato ovunque e un odore sgradevole. Gaia era nuda nel letto, tra lividi e macchie di sangue ovunque.
Assumendo il punto di vista dell’orizzonte socio-culturale rappresentato, Cusumano evoca nel racconto il dramma di una ragazza che attribuisce a sé la colpa dello stupro, per essersi ubriacata. E nondimeno, come spesso accade, la tragica vicenda finisce senza risoluzione alcuna:
Emma era famiglia. La sua Itaca. A Emma Gianluca non era mai piaciuto e lo sentiva a pelle che quella notte di qualcosa doveva essere responsabile. Sparì dopo decine di rose rosse. Gaia uscì dall’ospedale a fine agosto. Alla madre di Gaia, entrambe decisero di raccontare tutto al rientro dal suo ennesimo viaggio per il mondo. Era in tournée a cantare lirica sui palchi più prestigiosi. Fu sporta denuncia contro ignoti. Insufficienti le prove per incastrare Gianluca. Del resto, le violenze carnali erano state perpetrate da più persone, perché le tracce di sperma erano multiple e quello di Gianluca non combaciava con nessuno di quelli trovati tra le lenzuola e il corpo di Gaia. Ma, allora, Gianluca era innocente? Emma aveva la sua verità sui fatti ma se l’era tenuta per sé. Gaia non ricordava nulla, perciò era impossibile ricostruire la vicenda della notte trascorsa dentro la stanza quattordici dell’Hotel Salinas, nella città di Gianluca, il fidanzato assolto nel processo che la madre di Gaia aveva voluto a tutti i costi. Fiumi di soldi che non erano riusciti a far saltar fuori le prove. Un buco nell’acqua. Solo l’onta della vergogna, della colpa, l’umiliazione di raccontare l’orrore senza soluzione.
Ma bisognava andare avanti, pur col corpo segnato e un incancellabile senso di sporcizia addosso. Una lettera scarlatta rossa più della rosa. Di questa orribile storia, non doveva parlarsene più. Questo fu il patto. Fingere che non fosse mai accaduto nulla. Andare via da quella terra, frequentare l’Università fuori. Gaia si trasferì a Roma. Di anni ne passarono davvero tanti, ormai era laureanda in medicina. Da parte sua aveva trovato il modo, tra incubi, attacchi di panico, ansiolitici e psicoterapia, di non soccombere a quella vicenda.
Racconti, quelli di Cusumano, capaci dunque di rappresentare anche i drammi della contemporaneità nonché le contraddizioni di una società misogina, spesso dominata da uno sguardo ostile nei confronti del femminile. Le donne narrate in “Trame tradite” balzano fuori dalla pagina con tutta la vitalità che le contraddistingue, ricche di una forza d’animo e di un senso della bellezza tali da innalzarle finanche contro la violenza e il dolore. Esse sembrano costituire in un certo qual senso il prolungamento dell’identità della scrittrice, che fa della scrittura un altare su cui celebrare la vita. La narrazione mescola aspetti finzionali ad altri che invece presentano, senza ostentazione, una certa allusività biografica. Tratti di lirismo accentuano le sezioni descrittive, arricchite da profumi, colori o rappresentazioni che restituiscono l’immagine di una Sicilia atavica, terra di miti e di bellezze. Il lessico ingloba anche forme dialettali che suggeriscono una raffigurazione realistica di quanto viene narrato, nonché quel “senso di appartenenza” cui più volte le protagoniste alludono. D’altronde, il titolo “Trame tradite” indica al lettore la duplicità di una visione narrativa che, se da un lato si concreta, nel complesso, nell’elaborazione di una struttura corale, a più voci, dall’altra tuttavia pone in risalto l’elemento della fiction.
Pietro Romano