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L’anno del Maschio Fragile, Antropologia del Perdente e del Patriarcato

La persona del 2023 è, per l’Espresso, Elena Cecchettin. Sorella di Giulia. Anima ferita; ma anche principale esegeta, insieme al padre, del terribile femminicidio e dei femminicidi. Sdoganatrice, per questo, del “Patriarcato”.

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Peccato, per davvero, che questo concetto di Patriarcato, sia un poco fuori fuoco. Abbastanza sghembo da rischiare di trasformarsi in “etichetta”, se non – ancora peggio – in “randello” comunicativo.

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In prima battuta.

Patriarcato, così come è stato preso dai media e nei dibattiti, è il termine con cui sono stati indicati il “machismo” ma anche l’ “autoritarismo”, il “predominio sessuale” ma anche l’ “autarchia politica”. Il che rende l’idea di come i suoi confini e il suo contenuto siano noti solo approssimativamente.

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Il problema principale è che si tratta di una categoria sociologica e storica in parte anacronistica rispetto ai fatti che riguardano l’orribile omicidio di Giulia e, in generale, con femminicidi del nostro tempo. Ciò provoca una certa scivolosità nell’uso, di cui è prova anche la possibilità da parte della Ministra Roccella di cercare, in sede di conclave partitico, di sostituirne il contenuto: ha sostenuto che la “teoria gender” sarebbe, al momento, l’unico e vero patriarcato.

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Il termine, per come viene messo in campo oggi, è eredità dei movimenti per i diritti – e in particolare femministi – dei ’60. In quel tempo, viene finalmente snudato il retaggio nomotetico – normativo, giurisprudenziale e psicologico – della longevissima società “patriarcale”. E in quella fase, liminare, il termine ha plastica pertinenza alla realtà. Patriarcale era la forma di società che aveva governato per lunghissimo tempo in Occidente, e che si è basata sulla preminenza totale – morale e legale – del padre sulla madre. Patriarcali sono state le civiltà antiche. “Patriarcalissimo” è stato il medioevo imbrigliato dal maschilismo militare delle tribù nomadi che hanno invaso l’Impero. Patriarcali sono stati tutti i sistemi legali e giuridici che hanno retto lo stato moderno e lo hanno condotto nel ‘900. Patriarcale è stato lo Statuo Albertino. Patriarcale è sempre stata, anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, la morale cattolica.

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Quando, dagli anni ’50, la struttura economica delle società occidentali comincia a cambiare, allora questa linea continua comincia a essere realmente erosa. La ghigliottina, in Italia, va fatta corrispondere alla riforma del Diritto di famiglia, 1975. Nella temperie di quegli anni, a compimento di una rinfrescata morale che ha finalmente laicizzato e – per infiltrazione della forma mentis protestante americana – relativizzato e individualizzato i giudizi sui comportamenti sociali, la legge ha sancito la sostanziale equiparazione dei coniugi. Al pater è sottratta ogni arkè esclusiva. Morte del “patriarca”? Circa.

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Ciò che è rimasta purtroppo viva, e disgraziatamente tignosa, di questo “patriarcato” è una sorta rendita di posizione del “maschio”. L’aver occupato tutti posti di potere e tutti i ruoli chiave per un tempo lunghissimo, ha cioè concesso alla popolazione maschile europea una sorta di “vantaggio ereditario”. Ciò costringe oggi le donne a un forte impegno per recuperare il gap; per recuperare spazio nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, ma anche nella società civile in senso lato. Ovviamente, ciò provoca competizione sociale. Competizione “tiepida”, poiché anche nei paesi mediterranei – dove la struttura sociale si è evoluta più lentamente – una retorica della “parità acquisita” è generalmente condivisa e funziona da edulcorante; ma pur sempre competizione.

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È evidente che in questa rincorsa, la sproporzione è netta. I nostri sistemi economico-sociali sono veramente poco capaci di superare gli assetti tradizionali e, soprattutto, di intaccare la forza gravitazionale di alcuni gruppi di potere. I dati sono chiari: basti pensare ai divari stipendiale, occupazionale, di rappresentanza nelle istituzioni etc…che costringono le donne a partire “zavorrate”. Eppure, per certi uomini, questa competizione pare destabilizzante. Tanto da portare al femminicidio.

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Per certi uomini, cioè, negli atti di emancipazione femminile esiste qualche cosa di fastidioso, minaccioso se non esiziale. Ma, chi sono questi uomini? Sono i maschi fragili? Quelli, per intenderci, raccontatati da Alessandro Meluzzi in un libro di qualche anno fa?

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Si tratta, per stare a dei tipi astratti, di coloro che soffrono la competizione sociale sia in termini generici che in termini di genere. Generalmente cioè sono individui la cui realizzazione personale è mancata, fallita o presunta tale. Si tratta cioè di persone che si percepiscono Perdenti. Individui che possono arrivare a mancare l’elaborazione del fallimento o della sola difficoltà, e che in una capriola psichica attribuiscono le colpe al sistema, al mondo del lavoro, allo Stato…o alla donna che hanno accanto.

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Per queste persone, il confronto con una donna forte può risultare ancora più bruciante, proprio perché sono generalmente consapevoli del vantaggio che gli ha assegnato il retaggio patriarcale. In essi, evidentemente, convergono due istanze: quella verticale della nostalgia del Patriarcato, quella orizzontale del confronto con un presente complesso e non lineare, verso il quale sono – o si sentono – sprovveduti. Per questo il concetto di Patriarcato è insufficiente, e deve essere integrato con il paradigma della fragilità.

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Probabilmente, maschio fragile è il tipo di individuo che fatica a superare certa “adolescenza culturale”. È il tipo di individuo che non riesce ad arricchire, con la complessità del reale, la forma maschio/forte/eroe/guerriero/capo/protettore/vincitore/inventore/astronauta/etc etc…che proviene dalla tradizione culturale. È il tipo che non riesce ad abbandonare il demone adolescenziale del riconoscimento: ha bisogno del riscontro sociale per dare forma al proprio io; e quando questo riscontro sociale (per cui anche economico, relazionale, sentimentale…) viene meno sente minacciata la propria integrità di individuo. Mi si perdoni la semplificazione. È il tipo di individuo che soffre il confronto con una donna esattamente come quando, a undici anni – già pressato dalla competizione – avrebbe sofferto orribilmente per aver subito un goal, da una ragazza – e non da un ragazzo – al parco giochi del quartiere. È probabilmente il tipo che utilizza le categorie dell’Onore per regolare i rapporti sociali. E che per questo pseudo-Onore moderno è in grado di formulare l’idea del femminicidio.

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Ora, la categoria dell’Onore, insieme al suo antipode Vergogna, è forse quella che può aiutarci di più in questa “antropologia” del maschio fragile. Si osservi questo. Onore e Vergogna sono stati i regolatori sociali delle nostre società antiche. In quella fase, entro questa sfera, abitavano indistinte tre istanze che la modernità ha separato: quella dell’identità, quella dello status e quella della morale. Una trascinava le altre. Perciò la sanzione al comportamento sociale comportava una sanzione anche all’identità. Aiace, si uccide per questo. Un maschio fragile, invece, uccide.

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Nelle póleis greche dominava, secondo la famosa applicazione del concetto di Dodds, una “cultura della Vergogna” che determinava, attraverso la pubblica stima o disistima, la realizzazione dell’individuo o il suo fallimento. Un attacco all’Onore, poteva dare diritto alla Vendetta. A quella che dal medioevo chiamiamo faida. E per questa linea sono proseguiti fino a noi molti elementi del diritto – nonostante già i greci avessero sostituito l’uso della forza con la poiné, la multa – . Si consideri che nel Codice penale italiano le attenuanti per il “delitto d’onore” sono state eliminate solo nel 1982.

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Più nello specifico. Negli anni il tipo “mediterraneo” di codificazione dell’Onore ha trascinato molto avanti alcuni gravami. Questi sostanzialmente dipendono dal mantenimento della famiglia quale cellula primaria del tessuto sociale, laddove nell’Europa continentale questa è stata affiancata o superata, in epoca moderna, dalle appartenenze di ceto. Da questa difficoltà di innovazione sono dipesi, come è ovvio, il tradizionale familismo e la rigida separazione dei ruoli tra uomo e donna. Complice, certo, l’interferenza della morale religiosa, il rapporto d’Onore che riguarda tal separazione dei sessi ha sempre avuto una componente fortemente sessuale. L’Onore del maschio mediterraneo era nella difesa della reputazione della famiglia. E la reputazione della famiglia aveva come condizione essenziale il presidio della sessualità delle donne di famiglia. Padri e fratelli dovevano avere il controllo della verginità pre-matrimoniale; mariti quello dell’attività sessuale e procreativa. Da ciò deriva, è chiaro, come la violenza sessuale nel contesto mediterraneo sia stata utilizzata anche come arma sociale, se non politica.

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Ecco allora, sembra che nel maschio fragile queste categorie siano ancora attive. Categorie che agiscono forse per ripiegamento: di fronte ad un’attualità competitiva percepita come avulsa e ostile, questi maschi fragili sembrano tentati dal rientro nel guscio primitivo del familismo. Quando poi però scoprono che la donna non sta più a queste regole…

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Insomma, questi maschi fragili vivono all’incrocio di diverse istanze: percepiscono l’eredità vantaggiosa del Patriarcato ma non riescono a gestirla; ne ricavano una sconfitta sociale che non riescono a elaborare; cercano di richiudersi nella sfera del familismo e nell’annesso presidio sessuale; quando scoprono che esso è inattuabile sfogano la propria rabbia sull’agente innovatore: la donna. E tutte queste cose possono essere scambiate d’ordine e connettersi in modi vari e diversi.

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Quindi, un problema complesso, cioè composito e affrontabile solo attraverso una pluralità di strumenti e approcci. Un proposito, su questo tema, per il nuovo anno? Fare strame, definitivamente, di certa assurda e deleteria propaganda sulla “famiglia tradizionale” o addirittura sulla “famiglia naturale”. Non fosse altro che l’essere umano è divenuto tale proprio quando ha iniziato a strapparsi dallo “stato di natura”.

Sebastiano Bertini

Lo Scavalco è una scorciatoia, un passaggio corsaro, una via di fuga. È una rubrica che guarda dietro alle immagini e dietro alle parole, che cerca di far risuonare i pensieri che non sappiamo di pensare.

Sebastiano Bertini è docente e studioso. Nel suo percorso si è occupato di letteratura e filosofia e dai loro intrecci nella cultura contemporanea. È un impegnato ambientalista. Il suo più recente lavoro è Nel paese dei ciechi. Geografia filosofica dell’Occidente contemporaneo, Mimesis, Milano 2021. https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857580340

Sebastiano Bertini

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