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100 anni di Napoli scassata e africana

In un tempo in cui la cronaca costringe alle prime pagine in nostro Sud, e in particolare Napoli, sorgono meccanicamente domande sullo stato sociale-culturale di quella metà dello stivale.

Le risposte, quando ci sono, sono complesse nel senso più algebrico del termine: ogni territorio si dà come un gomitolo annodatissimo di spaghi diversi.

Alcuni spunti, utili per lo meno a guardare alla matassa con diversa consapevolezza, possono venire da alcuni sguardi “stanieri”.

Due sguardi – autodefiniti – antropologicamente “nordici”.

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Nei primi anni ’20 del Secolo scorso, quindi circa cento anni fa, Napoli è stata prima vissuta e poi analizzata da due dei giganti del pensiero novecentesco: Alfred Sohn-Rethel e Walter Benjamin.

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Sohn-Rethel, spiantato, inviato da un editore allo scopo di realizzare una pubblicazione divulgativa, vive tre anni a Napoli. Tra il 1921 e il 23.

Al ritorno in Germania, avrà ben in testa le idee del suo Critica dell’economia soggettivista.

Quel che pensa su Napoli è, al succo, definito dal titolo della sua opera Das Ideal des Kaputten: la Filosofia del Rotto.

La formula gli viene dall’osservazione dei napoletani alle prese con la Tecnica, con macchine e congegni.

Con sguardo di sociologo (e con abbondante senso di superiorità) osserva che a Napoli quasi non esistono cose “integre”: dominano le cose “aggiustate”. Come queste fossero rotte appositamente, per poi essere manipolate, accomodate, soprattutto “ambientate”.

Usi arrangiati: “il forchettone […] infilato nel mozzo di una moto che va in folle, monta la panna in una latteria”. Fantasiose strategie per fare il caffè in barca, un’auto rimessa in moto con un pezzetto di legno trovato per strada.

Sohn-Rethel deduce – in particolare da un dialogo con un capostazione – che nella Napoli degli anni ’20 le cose intere, funzionanti, vengono percepite come animate da una magia vagamente inquietante: chiuse nei loro involucri, ben attive, in un certo modo le macchine si occultano e sfuggono al controllo. Ciò che “va da sé, non si può davvero mai sapere come e dove andrà”.

Per questo il Napoletano rompe il guscio, rompe la cosa: in questo modo può “installarvi sé stesso”: soggetivare l’oggetto.

Una lotta contro il potere della modernità.

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Si noti come Sohn-Rethel, pur nel distacco “nordico”, spesso si lasci commuovere dai propri sensi.

Nella sua ascesa al Vesuvio – come già in molte altre pagine, decisamente più in sintonia con le narrazioni di viaggio alla Humboldt che con le analisi economiche – si ritrova una quasi totale immersione nelle luci, gli odori, le sensazioni. Una sorta di primordialità che – come scuola tedesca vuole – non manca di connettere alla suggestione mitologica: l’alba descritta è quella di un Febo Apollo che s’innalza a illuminare questo scampolo di Magna Grecia.

Walter Benjamin, invece, per parlare di Napoli, opera uno sfondamento. Va decisamente oltre lo stivale e punta dritto al cuore dell’Africa.

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Napoli è un testo finalmente riedito da Dante & Descartes. Scritto e pubblicato – sul Frankfurter Zeitung – tra ’24 e ’25, dopo un’estate a Capri.

L’espressione che ce ne restituisce l’intero è suggestiva: Napoli porosa.

In questo, per Benjamin, essa è l’anti-Parigi: la capitale francese è il luogo del frammento, dell’accozzo; la popolosa città campana è invece il luogo del contatto e della contaminazione.

L’immagine che Benjamin evoca è chiarissima: Napoli è il Kraal africano.

Kraal – seppur la parola sia di derivazione colonica olandese – è una forma di organizzazione primitiva, che affonda nella storia profondissima degli uomini cacciatori-raccoglitori: in essa una forma di socialità comunitaria, in cui interno e esterno non hanno filtri o ostacoli divisori, raccoglie le proprie abitazioni intorno ad un recinto circolare, a protezione e condivisione del bestiame.

Per Benjamin Napoli è il luogo del collasso delle categorie di pubblico e privato: ogni fatto è tanto intimo quanto esteriore. La casa e la strada si mischiano costantemente l’una nell’altra.

Si noti che il filosofo sottolinea come questa logica invada anche la dimensione temporale dell’esistenza: «Dormire e mangiare sono occupazioni senza orario, spesso prive anche di un luogo».

«Questo agognato sonno, che anche gli adulti recuperano appena possono in un cantuccio d’ombra, non ha nulla del preservato sonno nordico. Si tratta, ancora una volta, di una porosità, una compenetrazione di giorno e notte, rumore e silenzio, luce esterna e buio interno, strada e domicilio».

Fluidità da non-luoghi di Augé.

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Si aggiunga un dato: Benjamin è decisamente meno partecipe e meno indulgente di Sohn-Rethel.

Quando evoca il Kraal, certamente lo fa ricordando Goethe, che aveva paragonato il dialetto napoletano alla lingua degli Ottentotti di Capo di Buona Speranza: «tra il latrato e il balbettio, di cui non intesi una sillaba».

Vi è però un punto di congiunzione tra i due: l’improvvisazione.

Entrambi notano come la pratica sociale avvenga “all’improvviso” e come, nella creativa capacità di risposta al reale, si sintetizzi una genuina “resistenza” a quella modernità d’acciaio che discende tanto da Taylor quanto da Weber.

Benjamin è chi vede più in profondità: rileva anche come in questa anti-sistematicità riposi una dimensione “estetica”; per lui tutta Napoli è un enorme palcoscenico in cui «anche l’esistenza più miserabile è sovrana nell’ambigua, oscura consapevolezza di far parte, con tutto il suo degrado, di una di quelle irripetibili scene di vita di strada napoletana; e di poter godere, nel pieno della sua povertà, dell’ozio necessario per il grandioso scenario»

Questo non basta però per estrarre giudizi in toto positivi.

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C’è da domandarsi, a questo punto, cosa rimane di tutto questo dopo cento anni.

La Napoli di Caivano, dei minorenni armati, delle “stese”…la Napoli dei Neoborbonici che immaginano il nostro Risorgimento come una guerra coloniale con tanto di deportazioni di napoletani a Fenestrelle…è la Napoli che sembra aver rigettato davvero anche il “buono” della modernità. Peccato che sia anche la Napoli che si fa sentire di più.

Sebastiano Bertini

Lo Scavalco è una scorciatoia, un passaggio corsaro, una via di fuga. È una rubrica che guarda dietro alle immagini e dietro alle parole, che cerca di far risuonare i pensieri che non sappiamo di pensare.

Sebastiano Bertini è docente e studioso. Nel suo percorso si è occupato di letteratura e filosofia e dai loro intrecci nella cultura contemporanea. È un impegnato ambientalista. Il suo più recente lavoro è Nel paese dei ciechi. Geografia filosofica dell’Occidente contemporaneo, Mimesis, Milano 2021. https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857580340

Sebastiano Bertini

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