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La Sirena nera, Disney è una cosa americana

Molti possono ricordare che La Sirenetta, nel 1989, è stata per Disney la scintilla per una importante rinascita aziendale.

La casa era impaludata dalla metà dei ’60 – ovvero dalla morte di Walt Disney – in una belletta di insuccessi al botteghino e licenziamenti illustri. Attirato però nella sua galassia Spielberg, passando da Chi ha incastrato Roger Rabbit, ritrova la via.

The Little Mermaid è anche l’opera che porta a maturazione Disney come grande “americanizzatrice” della letteratura continentale. Sulla linea del saccheggio nella narrativa europea per ragazzi inaugurata dalla Cenerentola strappata a Perrault, qui si passa a Andersen. Con buona pace del tormentato danese, si fanno stralci dell’arcinota connessione biografica fra l’omosessualità dell’autore e il “non avere un posto al mondo” della sirena. Si cassa il suicidio finale. Si imposta la struttura drammaturgica sull’americanissimo musical. Ne esce la formula che garantirà almeno altri dieci anni di successi.

Sul fatto che la produzione Disney sia, oltre che prettamente “americanizzante”, anche espressione dell’America WASP, molto si è detto (anche a sproposito). Certamente non è difficile riconoscere come in un’età in cui il conflitto razziale era all’apice – Martin Luther King è ucciso nel 1968 – la casa cinematografica abbia faticato a mascherare il proprio orientamento. Già in Dumbo, nel 1941, uno dei corvi si chiama Jim Crow, come il politico che ha dato il proprio nome alle leggi sulla segregazione razziale. La sequenza di esempi di questo tipo è lunghissima. Si può chiudere con il 1967, quando arriva a portare nelle sale Il Libro della Giungla, dal romanzo di quel Kipling che con il “fardello dell’uomo bianco” aveva fornito una bandiera per il colonialismo britannico.

Va riconosciuto, certo, che gli anni ’90 sono stati segnati da diverse aperture, da Aladdin a Pocahontas e Mulan. Ma in era post-bipolare, la decentralizzazione culturale diventa un mantra anche per l’industria culturale. Dalla Carta di Peters in poi, ogni angolo di mondo batte i piedi per colorare con la sua bandiera una delle tessere del grande mosaico culturale occidentale.

Inutile sottolineare come le aperture cinematografiche Disney agli “altri mondi” non siano mai esenti da paternalismo, neutralizzazione e assimilazione culturale.

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Ora, in questa prospettiva, mi risultano piuttosto infondate le polemiche sulla “Sirenetta nera” montata in questi giorni.

Disney decide per un remake del suo – non di Andersen – classico in Live Action e sceglie un’attrice di colore per la parte della protagonista: fischi, lamentele e, dalla parte opposta, levate di scudi e difesa ideologica a oltranza.

Disney ha sempre operato con la massima libertà sui soggetti, distorcendone i significati proprio nell’ottica di sintonizzarsi con una certa porzione maggioritaria di pubblico. Ora fa la stessa cosa: coglie una linea di tendenza prettamente americana e, seguendo una strategia peraltro già abbondantemente sperimentata sulle piattaforme di Netflix e similaria, non fa distinzione etnica per l’assegnazione dei ruoli.

Crea contraddizioni? Distorce il racconto? Tanto quanto facevano i primi lungometraggi con i testi di partenza.

Stessa sequela di polemiche riguarda gli Anelli del Potere: serial di casa Amazon ispirato ai racconti di Tolkien. Nani e elfi di colore sono un affronto al mondo narrativo del Signore degli Anelli? Figuriamoci! Questa nuova serie non ha praticamente nessun collegamento filologico con gli scritti dell’autore: è un impasto di suggestioni che viene più che altro dai “vuoti” narrativi lasciati da Tolkien e che si sviluppa pescando decisamente dalla cinematografia di genere americana – quella più volta all’intrattenimento – esente da qualsiasi elaborazione letteraria.

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Strano a dirsi, pochissimi dei commenti circolanti sulla rete colgono l’“americanità” della questione. Forse perché siamo talmente immersi nella produzione cultural-televisiva made in Usa da esser convinti di farne parte.

Vorrei arrivare al punto evocando un grande “estraneo” alla cultura europea: LeRoi Jones.

LeRoi Jones è stato uno scrittore, un drammaturgo, un poeta, di lotta. Neri contro bianchi, dalla parte dei neri. Violentemente avverso a qualsiasi forma di politically correct, perfino complottista e accusato di anti-semitismo. Primo sindaco nero di Newark. Musicologo. Islamico dopo la morte di Marcom X, con il nome Amiri Baraka, e infine convertito al marxismo.

Padre nel nazionalismo nero; ha messo in scena il pensiero della “separazione” e anche quello, tanto comodo ai sostenitori di Trump, di “sostituzione”.

C’è una parte di Dutchman, 1964, che vale la pena di essere raccontata.

Ci sono sostanzialmente solo due personaggi: Clay, un uomo di colore, e Lula, una avvenente donna bianca. Tutto si svolge in un treno della metropolitana di New York: un treno “fantasma”, che non si ferma mai, come la nave dell’Olandese volante da cui viene il titolo.

Lula provoca sessualmente Clay/l’argilla . Una seduzione che però Lula fa naufragare nel confronto violento fra gli stereotipi etnici.

Ne esce il monologo di Clay: tracciando un arco che connette e compara le “danze nere” all’ “eredità culturale dell’uomo bianco”, il protagonista conclude che l’unica razionale risposta al razzismo sia la “sostituzione”, l’uccisione di tutti i bianchi. Poi il suo pensiero svolta di colpo: ammette che non vorrebbe mai più pensare al razzismo, non vorrebbe né impegnarcisi né agire a riguardo.

Non appena Clay si alza per andarsene, Lula lo trafigge al petto con un coltello. Lo uccide, senza parole o pensieri.

I passeggeri del vagone, bianchi e neri insieme, aiutano Lula a gettare il corpo fuori dal vagone alla prima fermata.

Un altro giovane uomo di colore entra nel treno, con lo stesso sguardo e lo stesso abito “tre bottoni” di Clay.

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Nel 1964, lo stesso anno, Disney fa uscire Mary Poppins. Film – pure questo Live Action come la nuova Sirenetta – che evade la realtà e il conflitto sociale (anche se qualche accademico recentemente ha voluto vedere nella scena dello spazzacamino una parodia del Black Warning).

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Se vi è qualcosa di positivo nel casting operato dal Disney – o da Netflix, Amazon etc… – è l’espressa volontà di agire curvando le produzioni della major sul paese reale. Un paese fortissimamente elettrificato da tensioni razziali.

Sottolineo: agire, senza necessariamente spiegare. Da certo pragmatismo americano dovremmo solo imparare.

In Europa la storia del razzismo ha seguito percorsi diversi. L’ “altra cultura” ebraica è sempre stata europea. Le “altre culture”, poi, provenienti dal resto del mondo non hanno mai avuto un vero peso e non si sono mai condensate in una linea oppositiva a quella “indigena”: in un’Unione Europea che si è creduta fino ad ora reificazione dei principi astratti del Diritto e del Mercato, tutto va bene purché sia convertibile in Euro.

Anche il mondo islamico, negli ultimi anni, che pure sa pensarsi controcanto avverso, alternativo fino – lo sappiamo – all’aperta ostilità, ha prodotto in Europa timidissimi agglomerati culturali autonomi.

Perciò noi europei non abbiamo vera esperienza di conflitto intra muros fra culture etniche (certo, conosciamo invece quello pienamente cultural/religioso e quello pienamente etnico).

Forse allora dovremmo stare un po’ più zitti.

Sebastiano Bertini

Lo Scavalco è una scorciatoia, un passaggio corsaro, una via di fuga. È una rubrica che guarda dietro alle immagini e dietro alle parole, che cerca di far risuonare i pensieri che non sappiamo di pensare.

Sebastiano Bertini è docente e studioso. Nel suo percorso si è occupato di letteratura e filosofia e dai loro intrecci nella cultura contemporanea. È un impegnato ambientalista. Il suo più recente lavoro è Nel paese dei ciechi. Geografia filosofica dell’Occidente contemporaneo, Mimesis, Milano 2021. https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857580340

Sebastiano Bertini

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