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In riferimento all’articolo “l’arte del dialetto in Sicilia” di Gianvito Pipitone ci scrive un nostro lettore

Caro direttore,

“sono un assiduo lettore del suo giornale e un convinto estimatore di Gianvito Pipitone curatore della rubrica La corda pazza. Oltre che la lunga e a tratti spassosissima dissertazione della dialettologia siciliana ho trovato assai interessante anche l’analisi e l’approfondimento sul rapporto che esiste fra lingua italiana e dialetti con cui l’autore ha colto una delle più significative differenze. La lingua si porta appresso il dialetto come corredo di letteratura mentre il dialetto spesso e volentieri sfugge alla regola e ai canoni imposti evitando così di lasciarsi ricondurre all’unità.

E ciò non tanto perché, come simpaticamente sottolinea l’autore, manca un Manzoni o una sorta di Accademia della Crusca siciliana in grado di garantire l’ortodossia di una parola rispetto a un presunto standard. Ma perché leggendo il testo si coglie benissimo il fatto che la varietà del dialetto siciliano è un formidabile, potente, inesauribile e inestimabile potenziale ricchezza sociale, culturale, antropologica, di costume, di credenze e di tradizioni che sono strettamente legati al modo di pensare e di comportarsi e al tempo stesso, grazie o purtroppo a questa varietà, esso ha una scarsa probabilità di poter confluire in una lingua unitaria deludendo i suoi più strenui sostenitori.

Il confronto fra i parlanti catanesi e palermitani (la stessa cosa vale fra i marsalesi e i trapanesi e fra questi e i mazaresi) ne è un esempio. Lo studio del dialetto, delle sue regole, della sua pronuncia, delle sue inflessioni, condotto in maniera esauriente e precisa, risulta ancora più convincente anche perché ha come punto fermo e di riferimento le sue multiformi sfaccettature e le sue più diverse sedimentazioni e metamorfosi che portano a comprendere meglio l’indole, la personalità, l’identità e la diversità di una comunità. “Un patrimonio che bisogna mantenere e salvaguardare arricchendolo per poterlo tramandare di generazioni in generazioni”.

Ma non c’è solo questo, il saggio offre molti spunti che meriterebbero ulteriori e più feconde analisi e ricerche inclusa la pianificazione di una campagna di promozione sempre più incisiva e diffusa per valorizzarne la portata e l’importanza.

Uno di questi spunti l’ho tratto pensando a Tullio De Mauro, che sono certo, Gianvito Pipitone, anche per motivi di studio, conosce meglio di me.

Di lui voglio ricordare il rapporto che ha voluto stringere con Marsala fino al punto che da più di dieci anni prima della sua morte la aveva eletto come seconda residenza per trascorrere con la famiglia le sue vacanze decidendo di dimorare nella splendida casa davanti alla riserva dello Stagnone. Ed è anche per questa ragione che gli è stata conferita la cittadinanza onoraria di Marsala, di cui non si può che essere fieri.

Il primo settembre 2016 fu invitato dal Sindaco Alberto Di Girolamo a tenere una delle sue lectio magistralis per parlare di “Europa: realtà, incertezze, e speranze”. Partiva sempre dagli albori della sua storia per far capire come, grazie a influenze esterne che venivano da molto lontano, il nostro continente si sia evoluto e civilizzato e che ogni conquista: l’uguaglianza uomo/donna, il diritto al voto, la qualità della vita e del lavoro sia stato il frutto di lotte e di lunghi processi. E mentre avvertiva che era necessario a un certo punto che le persone si guardassero negli occhi, capissero i bisogni e alleviassero le sofferenze di chi restava indietro (oggi avrebbe parlato del popolo ucraino che subisce una guerra di aggressione da parte della Russia e che questo conflitto può minacciare l’assetto stesso dell’Unione europea così come l’abbiamo conosciuta con la fine della seconda guerra mondiale e poi con la caduta del Muro di Berlino nel 1989) concludeva ogni periodo del suo discorso dicendo che ciò che regge questo circolo fatto di economia, scienza, benessere, è la cultura, l’istruzione, la solidarietà.

Non è il caso, anche se pertinente all’argomento, di parlare della sua monumentale Storia linguistica dell’Italia unita e di altre sue celebri pubblicazioni. Desidero invece ritornare al tema da cui siamo partiti limitandomi ad accennare al libro che egli ha scritto insieme ad Andrea Camilleri, intitolato “La lingua batte dove il dente duole” – Editori Laterza.

Il libro si interroga su che cos’è la lingua e cos’è il dialetto. Cosa esprimiamo con l’una e cosa esprimiamo con l’altro. Due giganti contemporanei della letteratura e della parola scritta e parlata. Che riflettono su Manzoni e Gasman, su Pasolini e Montalbano, su Benigni e Pirandello ma che si soffermano altresì sul ruolo svolto dalle oscure maestre elementari, da quello dei professori di educazione fisica, sulla poesia, il romanzo, il teatro, per arrivare a raccontarci come la lingua esprima chi siamo veramente. Per Andrea Camilleri il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, famigliare. E menziona Pirandello quando diceva che il dialetto esprime il sentimento mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto.

Per Tullio De Mauro il dialetto non è solo la lingua delle emozioni. “L’ho capito in Sicilia, da non siciliano, quando sono arrivato lì da professore all’università accolto dalle famiglie dei colleghi. Si partiva con l’Italiano. Ma appena la discussione si accendeva e magari passava alla politica, improvvisamente cambiavano registro linguistico. Un po’ alla volta slittavano nel dialetto e dell’italiano si scordavano. Gli uomini, per parlare di argomenti più impegnativi intellettualmente, usavano il dialetto. Perché, aggiungeva, a Venezia come a Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto. Una vera e propria riserva di autenticità, un argine contro un linguaggio impersonale che Pasolini temeva potesse prevalere.

Caro direttore, mi lasci aggiungere un’altra riflessione di De Mauro: “La mia speranza è che, siccome la lingua è sempre in movimento, in una progressione lenta e costante e viviamo circondati da gente che parla altre lingue, lingue diverse dalle nostre, vorrei che questo meticciato di lingue nuove possa contribuire a riempire e arricchire il “guscio vuoto”, povero di contenuti necessari a vivere nel complicato mondo contemporaneo, nel mondo “vasto e terribile” di cui parlava persino Antonio Gramsci”.

Mi è capitato di leggere alcuni racconti scritti da extracomunitari, come tante volte li abbiamo ascoltati in vari servizi in televisione, e la forza e l’energia del loro italiano sono talmente dirompenti che l’italiano acquista nuovo vigore, una linfa nuova che ringiovanisce la parola”.

Filippo Piccione

redazione

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