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“La lettera di mamma”, il racconto di Matilde Sciarrino vincitore del Premio Città di Gravellona Toce

Il racconto “La lettera di mamma” della docente marsalese Matilde Sciarrino si è classificato al primo posto nell’ottava edizione del concorso letterario Premio Città di Gravellona Toce “Emozioni di donna: racconti e vissuti”, sezione racconti di adulti. 
La premiazione ha avuto luogo tramite collegamento virtuale domenica scorsa. Di seguito, pubblichiamo integralmente il racconto premiato.

***

Giravo per le stanze calpestando il passato, schivando ombre.

«Luisa, prendi quello che vuoi, i ricordi più importanti». Con queste parole e una delega mia sorella liquidava la nostra storia familiare. Da anestesista Silvia aveva anche imparato a narcotizzare le emozioni. Io costruivo ponti, reali ed eterei.

Nel pomeriggio, invece, un ponte l’avrei eliminato stipulando il rogito della vendita di quella che era stata la nostra casa, l’ultimo legame con la città di Palermo. L’unica persona che l’abitava, mamma, se n’era andata, a febbraio, appena tre mesi prima.

Cosa scegliere? Conteneva le nostre vite fino agli anni universitari e poi segmenti di settimane infarcite di festeggiamenti, compleanni, matrimoni, anniversari, d’estate e d’inverno. Nelle mezze stagioni i nonni venivano a Roma a trovare figlie, generi e nipoti. Adesso avrei consegnato le chiavi di casa ad un signore di cui non ricordavo neanche il nome.

La cucina era ancora impregnata degli odori che da ragazza non sopportavo: le verdure fritte in pastella, il cavolfiore con le acciughe e le sarde a beccafico. Adesso li andavo inalando per rivedere mamma dietro i fornelli con il suo enorme grembiule con la pettorina.

Nello scatolone ci misi la zuppiera, quella sbeccata di nonna, che la notte di Natale stava sempre a centro tavola con il brodo di pollo fumante.

In lavanderia il filo elettrico del ferro da stiro pendeva come un cordone ombelicale appena tagliato.

Il salone sembrava una pista da ballo. «Ho dato a tua cugina Mariuccia tutti i mobili del salone» mi aveva detto mamma al telefono dopo le feste di Natale.

«Potevi dirlo prima a me o a Silvia, no?».

«Che, me lo impedivate? E quando io non ci sarò più, che ve ne fate di tutti questi mobili? A lei, povera stella, fanno comodo. Hanno comprato una casa a Cinisi, no, a Carini, no. Insomma, in un paese che inizia con la C. Adesso non ho più il pensiero di far pulire il salone. Io in questa casa mi ci perdo».

Dalla nostra cameretta presi Cicciobello e Sbrodolina; non ricordavo quale dei due appartenesse a me. Io e Silvia ce li contendevamo. Gli occhi passarono in rassegna le quattro pareti come uno scanner. Ad ogni breve sosta, un’esplosione di ricordi come coriandoli nell’aria: le tendine con le farfalle colorate, il giradischi comprato a rate con i vinili allineati, i fotoromanzi uno sopra l’altro a fianco dei gialli Mondadori, i vocabolari di latino e greco. Gli album di foto ce li eravamo già portati via. Stavo per chiudere la porta quando tornai indietro, scorsi i dorsi dei libri sugli scaffali. Scelsi ‘I promessi sposi’ dove le annotazioni a matita di mamma non erano ancora del tutto sbiadite e ‘Il Gattopardo’, il libro che odorava ancora della pipa di papà.

Nella loro camera mi avvolse il puzzo di stantio. Mamma si era sempre lamentata dell’umidità di quella stanza. A Silvia sarebbe di certo interessato il tre quarti di visone; a me piaceva il vestito di merletto nero che si era fatta cucire per il cinquantesimo anniversario di matrimonio. Decisi di rinunciare ad entrambi. La cassaforte era aperta: i gioielli ce li aveva dati due anni prima, il giorno dopo il funerale di papà. «Il Signore si è preso il mio gioiello più grande, voi prendete questi che non hanno più valore per me». Senza la collana e gli orecchini di perle, vestita di nero, ci era sembrata improvvisamente vecchia.

Il comodino di papà era vuoto. Nel comodino di mamma c’era il rosario di legno d’ulivo che le avevo portato dalla Terrasanta e un piccolo vangelo. Sembrava imbottito: fra le pagine consunte numerose orecchie e un foglio ripiegato in quattro. Lo aprì. Riconobbi subito la grafia di mamma, tratti sottili e allungati come zampe di gallina. Mi sedetti ai piedi del letto.

Padre,

Le scrivo questa lettera perché ho bisogno di essere ascoltata.

Ieri sono venuta in chiesa, ma ho trovato solo una grande croce e tante statue. Nessuna che mi guardasse negli occhi. Ho fatto il giro di tutte le cappelle, da quella di Santa Caterina a quella di Santa Maria Goretti. Ho evitato la domenica per trovare più attenzione, ma forse vi aspettate i fedeli solo quel giorno.

Avevo raccolto il coraggio di anni. Anni che mi porto dentro un diavolo che ride di me.

Sarei dovuta venire prima. Forse. Oppure non sarei dovuta venire affatto. E non scriverle. Punto. In questo momento sono in camera mentre le mie bambine bevono la cioccolata calda e la cena è in forno. Sono una madre e una moglie esemplare: questo dicono di me. Di mattina brava maestra, di pomeriggio brava casalinga. Ma io brava non mi sento.

Per anni ho pensato di essere io la responsabile con le mie gonne con la vita da vespa, le camicie aderenti e i foulard troppo colorati. O forse saranno stati i capelli, una massa di riccioli ribelli. Oppure la mia vivacità. La vita a diciotto anni è come un prato fiorito. Ne ho la conferma anche adesso nell’esuberanza delle mie figlie.

Quella cosa la raccontai a mia madre la sera stessa. “Con il tempo dimenticherai”. Quell’altra la rivelai a mio marito il giorno prima del matrimonio. “Avremo i nostri”. Le persone che amavo non riuscivano a comprendere il mio dolore.

Conosce, padre, quei tarli del legno che attaccano anche i mobili di qualità che, per quanto li si combatta, quelli lì restano. Si intontiscono, si addormentano, ma poi ricominciano a rosicchiare e rovinano il mobile. Io non riesco a liberarmi dei miei tarli.

Negli anni cinquanta poche ragazze studiavano ed io, all’ultimo anno dell’Istituto Magistrale ‘Regina Margherita’ mi sentivo una privilegiata. Con Ester avevo fatto tardi; tutto il pomeriggio sopra i libri a prepararci per le ultime interrogazioni. Gli esami di stato facevano paura allora.

Quel giorno sarei voluta restare a casa. I nonni si erano trasferiti da noi. Nonno Emanuele era peggiorato e la nonna da sola non ce la faceva più a stargli dietro.

Sentii freddo quando scesi dal bus. Secondo il calendario l’inverno stava per finire ed io nel vestirmi avevo anticipato la nuova stagione che, invece, sarebbe arrivata più tardi del solito. Sentii una porta aprirsi e una voce chiamarmi, “Ehi, tu!”, e l’indice puntato verso di me come quello dei professori quando ti chiamavano alla lavagna. Era il nostro vicino di casa, zi’ Mike. Si faceva chiamare così perché aveva passato tutta la vita in America. Poi, da pensionato, era ritornato in città. Oltreoceano aveva lasciato la moglie, in un cimitero di Brooklyn, e dei figli sparsi in diversi stati. Mia madre l’aveva conosciuto proprio alla fermata dell’autobus. Non so perché qualche volta, quando cucinava qualcosa di speciale, gliene portava un piatto. La domenica di solito. Le faceva tenerezza, quell’uomo tutto solo. “Vieni! Ca’!” Il suo parlare era imbastardito: un miscuglio di siciliano, italiano e di americano. “Come! Come here”. Forse non sapeva neanche come mi chiamassi. Di certo sapeva chi fossi. Spesso, quando passavo da sola o con mia madre, lui era dietro la finestra e ci salutava con un cenno della testa o un movimento della mano. Come quella volta. Salii i tre gradini verso la porta che aveva lasciato socchiusa. “Il piatto! Il piatto!” mi disse dalla cucina. Lo raggiunsi. C’era cattivo odore. Presi il piatto che mi porgeva e mi diressi verso l’uscita. Una mano mi trattenne il braccio. L’altra mi afferrò il polso. Stringeva che mi faceva male. Il piatto cadde. Andò in frantumi. Mille pezzi. Sembrava che mi infilzassero. Poi, dopo, vidi i frammenti sparsi sul tappeto davanti al divano. Erano innocui, loro.

Volevo correre, ma le gambe erano di piombo. Andai direttamente in bagno e poi in cameretta. Saltai la cena con la scusa del mal di pancia. Dopo, davanti alla tazza di tè fumante, lo raccontai a mia madre. “Devi dimenticare questa cosa. Abbiamo tanti pensieri: il nonno, gli esami…..” Intanto aveva gli occhi rossi. Né le sue parole né il bagno caldo servirono a far passare il dolore. La rabbia, quella non è ancora passata. Dopo qualche settimana arrivò un altro pensiero. Fu un mal di pancia, uno vero questa volta, a ricordarmi quella cosa. Cercai di far finta di nulla. Provavo a concentrarmi nello studio. Invano. Di Leopardi, delle guerre mondiali, di Nietzsche, dei limiti e delle funzioni non me ne importava più nulla. Ester si mise a studiare con un’altra compagna. Il caffellatte la mattina mi dava la nausea e cominciai ad assentarmi da scuola.

Lo dissi a mia madre. Non reagì come avrei desiderato. Non ne parlammo molto. Le diventarono di nuovo gli occhi rossi. Sapevamo che era una scelta inevitabile. A papà non raccontammo nulla.

Era una zona della Marina che non conoscevo. Il portone era scrostato, il cortile squallido. Mi sorressi al corrimano di ferro. Lei era alta e magra con i capelli lucidi raccolti in un tuppo che sembrava una ciambella. Sapeva il fatto suo: labbra serrate e occhi vispi, si faceva capire a gesti. Il lenzuolo del lettino era grigio e macchiato, ma non sporco. Mentre lei muoveva le sue dita affusolate e decise fra le mie gambe, io pensavo ai detersivi che usava mia madre per la sua biancheria smagliante. Era più efficace l’azolo o il sapone molle? O forse la nottata in ammollo?

Non vidi nulla, non sentii nulla. Forse svenni. Rimanemmo sedute a lungo, io e mia madre, sul divano di quella che funzionava da sala d’aspetto. Ricordo il fruttino alle mele cotogne che mi si scioglieva in bocca. Mi diede quel poco di energia che mi serviva per tornare a casa. Scendemmo alla fermata successiva alla nostra, quella dello zi’ Mike per noi non esisteva più.

Non so se fu più forte il male che fu fatto a me o quello che feci io. A chi poi? Io ero viva, una ragazzina. Avevo la mia vita, pensavo e amavo, sentivo e ragionavo, gioivo e soffrivo. Lui per me non c’era o meglio c’era, ma come una carie appena spuntata, di quelle che il dentista ripara in una sola seduta.

I giorni successivi furono molto concitati. Il nonno peggiorava di ora in ora. Mia madre era troppo presa dai suoi genitori per occuparsi di sua figlia. Al capezzale lo vegliavamo tutte e tre come pie donne. Per la prima volta sentii quel rantolo che annuncia la fine. Mi chiusi in camera e per giorni non volli vedere nessuno. Tutti credevano che fossi angustiata per il nonno; solo mia madre sapeva che io ero a lutto per un’altra perdita.

Sto scrivendo come mai ho scritto prima. Se avessi tenuto un diario in vita mia sarebbe stato diverso, mi sarei liberata. Sto scoprendo adesso che, una volta che ci si mette a scrivere, le parole escono da sole perché sono rimaste troppo tempo chiuse.

Non so se vorrà o potrà leggere questa mia; non so neanche se gliela farò recapitare. So solo che averle scritto mi ha dato quel sollievo che ho sempre cercato.

Palermo, 16/12/1971 Bianca Maria Corda

Feci scorrere la mano sul copriletto di ciniglia celeste come se fosse il volto di mamma, il volto di una ragazza che non avevamo mai conosciuto.

Se tenevo in mano quella lettera era perché non era mai stata recapitata. A mamma era bastato scriverla per esorcizzare quel tarlo malefico che l’aveva tormentata per anni e liberarsene definitivamente.

Ripiegai il foglio ormai umido e lo riposi in mezzo alle pagine che lo custodivano, fra la fine del vangelo di Luca e l’inizio del vangelo di Giovanni, fra l’ascensione e la nascita. Misi in borsa il volumetto e il rosario, le uniche cose che decisi di portare con me. Silvia avrebbe capito.

In una tasca della giacca infilai i fazzolettini di carta appallottolati, dall’altra estrassi le chiavi. Percorsi il lungo corridoio senza voltarmi indietro. Diedi due mandate alla porta blindata.

redazione

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  • Carissima, certo non ti ricorderai di me ma io ricordo sempre i giorni di Tripoli e allora mi vieni in mente tu e la tua dolcezza. Sei una persona speciale e il premio che hai ricevuto è senz'altro ben meritato. Brava mi hai fatto commuovere. Ma tu a Roma non capiti mai? Mi farebbe piacere rivederti.

  • Ciao Matilde ho letto il tuo libro e mi ha emozionato.
    Ti ricordo con tanto affetto dai tempi di Tripoli ...spero anche tu.
    Contattami se vuoi sulla mail del Maeci dono ancora all estero a zurigo. Riciordo la tua bella famigla a Marsala ...quel viaggio mi resta nel cuore. Un abbraccio forte.
    Marina

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Tags: Matilde Sciarrino