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Nomadi contro Stanziali: chi si “muove” è perduto

La memoria collettiva, antropologica, è una gran terrina di zuppa inglese. Cucchiaiata dopo cucchiaiata gli strati svelati aggiungono qualcosa al primo boccone: aumentano la complessità e le sfumature, fino a quando gli ultimi strati ci permettono di comprendere, perimetrare, l’intero. Con gli ultimi strati così sappiamo un po’ di più anche di quelli superficiali; sappiamo spiegarci qualcosa in più del perché, ad esempio, viviamo in un mondo globalizzato enormemente squilibrato o del perché il nostro Parlamento non riesce a eleggere un nuovo Presidente.

L’uomo occidentale porta dentro sé, pur spesso non sapendolo, la traccia psichica del primo grande processo trasformativo della sua storia: l’invenzione della stanzialità. Che significa anche l’invenzione della “civiltà” per come ora la intendiamo. Tutto inizia – ma questo è un po’ più noto – con la domesticazione di alcune specie vegetali: dato che la maggior parte delle piante sul pianeta non è commestibile, riuscirne a concentrarne e a farne riprodurre di edibili ha già evidenti vantaggi. Di qui in poi è – quasi – tutta in discesa: verrà la forza animale, il surplus alimentare, la liberazione di energie per l’esercizio del potere, della religione, dell’arte. Meno noto è il fatto che questa trasformazione è stata decisamente poco lineare e che per secoli ha indotto una conflittualità tanto significativa da essere fondante e conformativa: quella con il nomadismo. Mentre i primi placidi villaggi si stringevano intorno ai primi granai, vasta parte dei gruppi umani era organizzata in tribù nomadi, continuamente in movimento alla rincorsa della selvaggina e delle stagioni. Ma anche in movimento intorno alle capanne di fango dei contadini: facili da predare e, grazie allo spirito da formiche, quasi perenni serbatoi di risorse.

Nomadismo e stanzialità sono divenuti, nel tempo lungo, modelli esistenziali compresenti e alternativi. I primi, per estensione delle logiche sociali dell’orda, portatori del grumo concettuale del “nuovo” e dei principi del maschile, del monogamico, del monocratico e del monoteistico; i secondi fondatori dell’oikonomia, del femminile, della poligamia, della poliarchia e del politeismo. Germanici contro Romani: mi par chiaro. E come insegna, appunto, la storia che culmina nel Medioevo, la concorrenza fra i due modelli è divenuta compenetrazione “sbilanciata”: i villaggi, divenuti con qualche capriola città e poi regni o imperi, hanno cercato di vincere i nomadi per soffocamento, rubando loro spazio vitale attraverso l’espansione nella logica del terreor, del controllo del territorio, antropologicamente opposta a ogni concettualizzazione nomade dello spazio. Logica poderosa: i germanici che hanno penetrato l’Impero ci hanno lasciato in eredità la nobiltà militaresca con la spada al fianco, o la primazia del primogenito, ma non hanno interrotto la corsa del territorio.

Le città hanno sempre temuto il nomade, il transeunte, per le scintille psicologiche che essi accendono. Il nomade compare allo stanziale, un tempo come ora, quale bruciante primitività. È lo specchio deformante che svela l’io pulsante che la società stanziale, per esistere, addomestica. Esso è pulsione sessuale, è fame, è desiderio di un riparo; esso è qui per prendere, concupire, divorare, lacerando e attraversando leggi, statuti, tradizioni. Per questo, quando la società contemporanea ha conquistato i mezzi tecnologici, si è conformata come rete di città, di centri di potere, di milieu tecnologici e economici: una sorta di maglia fluttuante in grado intrappolare il migrante, di sviarlo verso le periferie, di diluirne il precipitato di novità. E ancora per questo che quando la casa, l’oikos, di uno dei centri del potere – il Parlamento – è malamente gestita, si rinuncia al nuovo per il vecchio.

Sebastiano Bertini

Sebastiano Bertini

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Tags: nomadi