Contratti non rispettati, trasferimenti forzati, vessazioni continue, orari impossibili. Chi si lamentava o si iscriveva al sindacato veniva punito. Questo è il racconto dei lavoratori dei supermercati Conad di proprietà dell’imprenditore palermitano Carmelo Lucchese. La scorsa settimana lui è stato inquisito per mafia, i punti vendita sequestrati e adesso in 400 aspettano di conoscere quale sarà il proprio destino. Sono costretti a parlare a volto coperto. Mentre Conad tace.
Qui l’inchiesta di Collettiva, piattaforma della Cgil per raccontare il lavoro e il sindacato: lotte, conquiste, pratiche e battaglie. Servizio di Roberta Lisi e Mauro Desanctis:
Sull’insegna dei negozi campeggiava la scritta Conad: ma cosa succedesse all’interno dei 13 supermercati, distribuiti tra Palermo e i Comuni della provincia, sembra non lo sapesse nessuno. Tantomeno il “Consorzio nazionale dettaglianti” acronimo della cooperativa di dettaglianti con sede a Bologna attiva nella grande distribuzione in tutto il Paese. Come succede ovunque, l’imprenditore inquisito per mafia dal Tribunale di Palermo la scorsa settimana, Carmelo Lucchese, era l’unico titolare dei suoi 13 punti vendita, ed essendo associato Conad andava a rifornirsi presso il magazzino della cooperativa, ma per il resto padrone assoluto.
E come padrone assoluto intendeva il rapporto con i suoi dipendenti. Contratto collettivo di lavoro disdettato in favore di contratti pirata peggiorativi sia nella parte salariale che in quella normativa: salario assai più basso e pochissime tutele. Insomma un “regime”. Così descrivono i dipendenti di Lucchese che si sono rivolti alla Filcams e la Cgil di Palermo, hanno voluto raccontare come hanno vissuto negli ultimi due anni ma la paura è ancora tanta e hanno preferito non farsi riconoscere. Eh già, perché è vero che l’azienda è sottoposta a sequestro giudiziario ma la strada della confisca è lunga e il timore che Lucchese torni è molto.
Il sindacato, certo, non poteva sapere di collusioni con Cosa Nostra, ma che in quei 13 supermercati la dignità del lavoro fosse messa sotto le scarpe lo sapevano: più volte è intervenuto e denunciato. “Abbiamo segnalato più volte a Conad che sotto la loro insegna gli imprenditori non si adoperavano né per il rispetto dei contratti né per la tutela dei lavoratori”, dice Giuseppe Aiello, segretario generale della Filcams del capoluogo siciliano. “Chiedevamo a loro di sensibilizzare i propri associati, ma le risposte di Conad erano delle prese di distanza rispetto alle imprese, dal momento che si trattava di imprenditori con una propria ragione sociale, indipendenti da loro. Abbiamo chiesto attenzione maggiore visto che Conad è un’insegna storica. Dovrebbero fare una sorta di patto etico con gli imprenditori che si associano”.
È vero che per statuto Conad non può aprire punti vendita direttamente, gestisce in proprio solo il magazzino attraverso la cooperativa Pac 2000. Lì i dipendenti sono assunti a norma di contratto e hanno diritti e tutele. In ciascun supermercato del marchio vige, invece, la regola che detta il singolo proprietario associato Conad. In quelli di Lucchese funzionava così: contratto di comodo, salario assai più basso di quello della grande distribuzione e per stancare e indurre alle dimissioni i “lavoratori scomodi” continui cambi di sede a chilometri di distanza dalla propria abitazione, e si sa le strade in provincia di Palermo non sono esattamente perfette e mezzi di trasporto alternativi alla propria auto scarseggiano.
Chilometri e chilometri da percorrere ogni giorno trasferendosi da un comune all’altro, ovviamente a spese proprie, magari anche con poche ore tra un turno e l’altro così da non riuscire a tornare a casa. Buoni pasto, riposi e pause questi sconosciuti e tutto per pochi euro al mese. Mentre ore di lavoro in più rispetto a quelle definite, magari non pagate, invece sì. “Ma la sete di lavoro dalle nostre parti e tale che nonostante tutto per loro questo era meglio di nulla e quindi sopportavano”, aggiunge Aiello. Insomma la vita all’interno di quei punti vendita era come quella di una caserma punitiva, si ricevevano ordini e si eseguivano a testa bassa.
“Quando un lavoratore deve girare la testa dall’altra parte, per non vedere i soprusi vuol dire che in quel luogo la democrazia è morta”, dice ancora Aiello con la voce incrinata dalla rabbia e aggiunge: “La democrazia in quei luoghi funziona fino a quando si sta con gli occhi calati a terra, quando si alzano gli occhi e ci si ribella, finisce anche la democrazia e comincia il regime come lo chiamano i dipendenti di Lucchese. Che tutto questo accada comunque sotto un’insegna con quella storia fa ancora più male”.
Ora è arrivato il sequestro. Nell’isola secondo l’ultima relazione della commissione Antimafia regionale le aziende sequestrate sono oltre 780, quelle produttive sarebbero solo 39, cosa succederà ai 400 lavoratori e lavoratrici? La Filcams e la Cgil di Palermo chiedono all’amministrazione giudiziaria garanzie a tutela di tutti i dipendenti e chiedono un incontro, il prima possibile, che come primo obiettivo abbia quello di salvaguardare i livelli occupazionali. Poco prima del sequestro, in tutta fretta Lucchese stava cercando di attivare la procedura di cessione di ramo d’azienda nei confronti di altri soci. Occorre verificare rapidamente se questa sia strada percorribile individuando imprenditori in grado di garantire reddito. E soprattutto si chiede che venga restituita anche la qualità del lavoro che equivale alla qualità della vita.
“Questa – conclude il suo ragionamento il segretario della Filcams -, potrebbe essere la prima occasione per lanciare l’applicazione dell’accordo sottoscritto lo scorso 18 febbraio tra Cgil Cisl Uil e Confcooperative, Agci e della Lega delle Cooperative per la workers buyout, attraverso la rigenerazione in forma cooperativa dell’impresa. I lavoratori, con il modello Wbo diventano soci protagonisti e possono rigenerare aziende in crisi, o sottoposte a sequestro come in questo caso, utilizzando la normativa che ha dimostrato di essere una possibile risposta in situazioni legate al riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata”. Come insegna questa storia, troppo spesso, violazioni dei contratti e della dignità del lavoro vanno a braccetto con l’illegalità. E allora il lavoro dignitoso è presupposto di legalità.