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Il governo senza siciliani e la sfida della coesione: il futuro di Draghi passa dal Sud

Nasce senza siciliani il nuovo governo guidato da Mario Draghi. E già qui, ci sarebbe tanto da dire. Se in 23 Ministeri non c’è spazio per un’autorevole espressione della regione più grande d’Italia, le cose sono due: o nella classe dirigente siciliana non ci sono elementi degni di far parte del governo dei migliori o il governo Draghi considera prioritario il rilancio dell’economia del Nord rispetto a quella del Sud.

La prima delle due supposizioni è presto smentita dai fatti se guardiamo all’esecutivo di Giuseppe Conte, che nel Ministro per il Sud Giuseppe Provenzano aveva un’espressione sicuramente autorevole e competente di questo territorio. Ma siciliani di qualità ce ne sono tanti, sebbene spesso la politica non abbia proprio scelto i migliori.

E allora, dalle prime nomine tende a rafforzarsi la sensazione (o il pregiudizio) che il governo Draghi, composto sicuramente da Ministri validi e preparati (con qualche eccezione, a partire dalla Gelmini) sia nato con l’obiettivo di gestire i fondi del Recovery Fund in una determinata direzione, quella che, dall’Unità d’Italia in poi, accomuna gran parte dei governi che si sono succeduti. Siamo abituati alle argomentazioni di politici ed economisti, che hanno sempre visto nel Nord la locomotiva d’Italia, in grado di riportare in alto gli indicatori economici nazionali. Una logica che ha sempre visto nel Sud un’area tendenzialmente irredimibile, prigioniera delle organizzazioni criminali e di certi vizi duri a morire. Utile come granaio di voti per i partiti di governo o come serbatoio di eccellenze da esportare e mettere al servizio delle grandi aziende settentrionali. Un progetto di rilancio reale per il Sud, purtroppo, è sempre mancato e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: l’ultimo rapporto Eurostat ha infatti certificato che Sicilia, Calabria e Campania sono tra le 10 regioni del continente a più alto rischio povertà. La crisi economica iniziata nel 2008 e la pandemia, purtroppo, hanno ulteriormente peggiorato la situazione, generando un divario economico tra le regioni più ricche e quelle più povere ormai insostenibile, come dimostrano anche i dati sull’emigrazione giovanile.

Eppure, nel 2009, da presidente di Bankitalia, in un suo discorso pubblico Mario Draghi invitava a “riesaminare il problema che ha segnato la storia economica d’Italia fin dalla sua Unità”, sottolineando come lo sviluppo del Mezzogiorno fosse utile a tutti. E anche nel suo primo discorso da presidente del Consiglio incaricato, Draghi ha sottolineato una parola preziosa, ma per certi versi sottovalutata – coesione – che dovrebbe davvero essere il punto di partenza di un governo che ha a cuore il futuro dell’Italia (da Bolzano a Lampedusa), necessariamente vincolato ad un processo di riduzione delle diseguaglianze geografiche, socio-economiche, generazionali e infrastrutturali.

Se dunque Draghi riuscirà ad applicare in Italia le convinzioni espresse in passato e quel modello che da presidente della Bce applicò all’Europa, salvaguardando i Paesi economicamente più fragili, l’orizzonte meridionale potrebbe finalmente ricominciare a respirare e lo stesso presidente del Consiglio potrebbe ambire a un posto d’onore nella storia nazionale, riuscendo in un’impresa in cui tanti hanno fallito (per incapacità o calcolo).

Viceversa, verrà ricordato come un Monti o un Dini qualsiasi, mero esecutore materiale di ricette economiche insipide, utili solo a consolidare la supremazia delle élites e ad alimentare la rabbia popolare.

Vincenzo Figlioli

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