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Joe BlackDock un rapper da Marsala alla Luna: “Nella musica ci vuole mentalità reattiva”

Joe BlackDock è un rapper marsalese che sin da giovanissimo si è avvicinato a questo genere musicale pubblicando già tre album. Lo abbiamo intervistato in vista del suo nuovo lavoro.

Sei giovane e non al primo lavoro all’attivo. Quest’ultimo album, “Lunar”, lo definisci più maturo. Parlaci del disco e di cosa è cambiato in Joe BlackDock. Cosa hai visto in questo anno difficile, soprattutto per la cultura del nostro Paese?

“Lunar” è il mio terzo lavoro da indipendente e credo si noti, ascoltandolo, la voglia di rivalsa che questo 2020 ha impresso in noi giovani. È più maturo perché io stesso sono maturato molto nell’ultimo anno: ho iniziato una mia attività lavorativa studiando da autodidatta, mi sono approcciato al mondo del lavoro da solo e tutto questo è stato accompagnato da una pandemia che ha sconvolto non poco l’ordine mondiale delle cose. Pensavo sarebbe stato un normale periodo di crescita ma non lo è stato affatto. Credo che per un artista, un carico così alto di emozioni possa essere solo d’ispirazione, sia nel bene che nel male.

IL VIDEO

Come nasce il progetto Joe BlackDock? Eri uno studente del Liceo Pascasino con tanti testi nelle tasche… raccontaci.

Quelli erano bei tempi. Joe BlackDock nasce a cavallo tra la terza media e la prima superiore, facendo freestyle insieme ad alcuni amici. Ricordo che quando iniziai a fare rap entravo appena al primo anno Superiore. Scrivevo i testi delle mie canzoni sul quaderno di matematica (quell’anno andai malissimo infatti) e il pomeriggio li registravo nella mia cameretta con un microfono da videoconferenza degli anni ’80. Il Pascasino è stato fondamentale nella mia crescita musicale. Oltre a lasciarmi spazio per alcune esibizioni è lì che ho conosciuto alcuni di quelli che ora sono i miei più grandi “fan”, oltre che i miei carissimi amici. Tanti testi nelle tasche, sì, ma non avevo ancora capito come sfruttare il mio potenziale.

Spiazzi tra il rap anni ‘90, più classico, alla moderna trap. Senza essere mai banale e senza il linguaggio magari scurrile usato dai più noti “trappisti” italici. Cosa ti affascina della musica? Quali sono i tuoi ascolti?

Il problema della trap attuale in Italia è che tutti, emergenti soprattutto, sono stati molto colpiti dall’immaginario “gomorriano” introdotto nel rap. Dire “ho le ragazze, i soldi e la droga” non fa di te il nuovo Genny Savastano, non so se mi spiego. Quando faccio musica cerco sempre di essere diverso dagli altri. Non perché gli altri artisti facciano brutta musica, ma perché in giro si sente sempre la stessa roba. Il mio desiderio è essere riconoscibile, tramite la voce e le rime strane che creo. Sentire dire “questo è un pezzo di Joe” e non “questo è un pezzo trap”. In questo mi ispiro molto a Fabri Fibra, primo rapper che abbia mai ascoltato, ma ascolto anche il blues di B B King o quello di Pino Daniele, per poi passare da Aretha Franklin agli AC/DC. Ascolto tutto, non mi precludo nulla, anche se sono un appassionato del ‘rap classic’ di Notorious.

Come nasce un tuo brano? Cosa ti ispira e soprattutto con chi fai musica? Perchè hai delle collaborazioni…

I brani migliori nascevano tra i banchi, durante una spiegazione di Italiano o una lezione di Religione. Oggi scrivo praticamente sempre, quando ho tempo, partendo dalla base e scrivendoci sopra quello che mi trasmette. Questo non sarebbe possibile senza i miei producer, i ragazzi che da anni ormai mi forniscono le basi strumentali. Una menzione va a Speed, che mi accompagna ormai dal 2017, ma anche a FIELD e a DayPay, che ho coinvolto nella produzione del mio ultimo disco. A Marsala poi c’è solo un altro rapper con cui collaborerei sempre, siamo fratelli oltre che colleghi, il suo nome è PVSCAL.

“Lunar” ha le pretese di fare bene sfruttando lo streaming. Da artista indie come vedi l’opportunità della musica su piattaforma? E al di là di ciò, cosa pensi dei live in streaming in questo periodo di emergenza sanitaria, sei favorevole? E’ un metodo che può/deve durare o no?

La musica sui negozi digitali ha letteralmente stravolto quello che era il sistema di vendita già solo 10 o 20 anni fa. Ai tempi, se eri un emergente, dovevi per forza cercare un contatto manageriale, radiofonico o discografico se volevi avere la possibilità di farti sentire. Oggi invece anche un 14enne, come lo ero io, può caricare le proprie canzoni sul web e sperare nel successo. Da questo punto di vista la tecnologia ha agevolato moltissimo gli artisti ed io ne faccio un larghissimo uso, sfruttando e conoscendo gli algoritmi per risultare sempre tra i primi risultati. Essere un appassionato di tecnologia mi ha giovato parecchio. Per quanto riguarda i live streaming credo che, al momento, siano l’unica opzione per poter rinvigorire quel settore lavorativo che per mesi non ha avuto di che mangiare. Parlo degli addetti ai lavori, dei fonici, dei truccatori, degli stylist o dei registi, sceneggiatori, coreografi e di tutti quelli che lavorano dietro le quinte. Sono mesi che non salgo su un palco e ammetto che, anche in streaming, accetterei volentieri di cantare per un pubblico online. È un metodo che funziona ma che non potrebbe andare oltre la pandemia. La gente ha bisogno dei concerti dal vivo e gli artisti hanno bisogno del contatto col pubblico. Sentirli urlare per le nostre canzoni è quello che ci salva ogni giorno.

E’ difficile fare musica in questa fetta di Sud. Quali sono le tue ambizioni, dove ti porterà il futuro e in primis la tua musica?

Come dice il mio stesso disco, “voglio arrivare sulla luna”. Il problema di essere un rapper al sud è che sei costantemente ignorato. Non perché non valido, ma perché qui va avanti chi ha amici, chi ha partito o chi è più conosciuto dell’altro. Non importa se la tua musica ‘spacca’ o meno. Per non parlare dell’invidia o di quelle poche occasioni che ci sono. Sembra quasi che la musica in Sicilia sia ferma agli anni ’80. Quando si parla di rap, in Sicilia come ovunque in Italia, si pensa subito a tizi tutti tatuati ed armati fino ai denti. Questo succede in America già dagli anni ’70, in Italia sono tutti attori che si pagano i giocattoli con i soldi del padre, fingendo di essere dei gangster quando la mattina sono belli comodi nel loro lettuccio. La mentalità è vecchia, involuta e poco reattiva, per cui se in mezzo al letame dovesse esserci un diamante… Poco importa. Tutti faranno sempre di tutta l’erba un fascio. Dove voglio arrivare? Alto. Tanto in alto da rischiare di cadere talmente forte da fare il botto. Come si dice, più grossi sono, più forte cadono.

redazione

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