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La lezione del voto

L’Italia avrà 345 parlamentari in meno. Lo hanno deciso gli elettori, che con una netta maggioranza hanno confermato la modifica costituzionale approvata a Montecitorio e Palazzo Madama. Un voto trasversale, che conferma l’opinione negativa che gli italiani hanno della rappresentanza politica, ritenuta autoreferenziale e incline al privilegio. Se ogni effetto scaturisce da una causa ben precisa, sarebbe superficiale affermare che il risultato di questo referendum è causato dal populismo, dimenticando che la rabbia contro la Casta non è che il frutto degli eccessi di una certa cultura politica, che ha spesso mostrato più attenzione all’interesse privato che a quello generale, tradendo il solenne impegno ad assolvere alla propria funzione istituzionale “con disciplina e onore”. Votare per il taglio alla rappresentanza parlamentare, per certi versi, è però anche il riconoscimento di una sconfitta. E’ come dire: “non possiamo avere politici migliori, accontentiamoci di averne meno”. E invece è proprio dalla qualità della rappresentanza e del consenso che dovrebbe ripartire la politica italiana, offrendo rappresentanti autorevoli a tutti i livelli, capaci di mantenere canali di comunicazione e confronto costanti con i territori.

Il rischio che il Parlamento sia sempre più la voce dei grandi centri, penalizzando le periferie è concreto, così come quello di affidare in misura ancora maggiore la selezione dei candidati alle segreterie di partito, secondo principi non meritocratici. Per carità, potrà esserci il parlamentare illuminato, capace di restare in ascolto anche della provincia, ma il modello culturale con cui abbiamo convissuto nella Seconda Repubblica va in ben altra direzione. Perchè, diciamoci la verità, per un deputato o un senatore è più comodo allinearsi ai leader regionali o nazionali, limitando le proprie sortite pubbliche al minimo che doversi confrontare con il proprio territorio. Soprattutto, se la legge elettorale (come avvenuto col Porcellum) impone un sistema di liste bloccate che lascia ben poco spazio alla volontà popolare.

Tuttavia, al di là della necessità di un nuovo patto tra rappresentanti e rappresentanti, va detto che per cambiare davvero registro servono interventi decisamente più urgenti e incisivi, a partire dal superamento del bicameralismo paritario, dalla riforma della burocrazia e della giustizia civile (che tanto rallentano i processi decisionali), senza dimenticare la lotta alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione. Interventi auspicati da anni da costituzionalisti ed economisti, ma che hanno sempre trovato di fronte ostacoli insormontabili. La più grande sfida per una classe dirigente coraggiosa e responsabile è esattamente questa. A maggior ragione, in un Paese che dopo la pandemia non può più permettersi di rinviare a data da destinarsi l’appuntamento con il proprio futuro.

Vincenzo Figlioli

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