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Archeologia del presente – Cartoline dalla quarantena

Più scrivo di questo tempo che stiamo vivendo e più ho la sensazione di fare una sorta di archeologia del presente.

Di solito, infatti, quando si scrive in presa diretta di ciò che succede attorno, si fa cronaca: ma per fare cronaca bisogna che le cose che hai davanti, che inquadri, abbiano contorni ben definiti. La cronaca è mettere a fuoco un fatto, un punto ben preciso del reale e raccontarlo.

Mai come oggi, invece, siamo costretti a raccontare senza mettere a fuoco, cose e fatti dai contorni sfocati.

Siamo costretti a raccontare il presente come fosse fatto di reperti archeologici difficili da decifrare. La realtà quotidiana ci appare opaca come se invece di dover leggere i segni del nostro tempo, dovessimo decifrare resti lasciati a terra da civiltà di epoche antiche.

Questa sensazione è dovuta sicuramente all’esigenza che sentiamo di dover comunque testimoniare quello che ci sta succedendo: questo fermo ci sta costringendo ad un in più di riflessione, sappiamo di essere testimoni di qualcosa che dovremo essere capaci di raccontare e per questo cerchiamo la giusta distanza.

Ma, in parallelo, è netta la sensazione che le cose normali, quotidiane fino a qualche settimana fa, se le guardiamo oggi, faticano a prendere senso davanti a noi. Guardiamo le saracinesche chiuse dei bar e, un po’ pensiamo a quanto sarà bello poterci andare quando “tutto questo” sarà finito, un po’ l’idea di prendere un caffè con gli amici ci appare straniante. Parlare di aperitivo ci fa sentire colpevoli se non criminali. Ci commuoviamo di fronte all’altalena ferma del parco giochi per bambini sul lungo mare.

Abbiamo come la sensazione di essere di fronte a reperti o a possibili tali. Come fossimo di fronte ad un mondo vivo ma che sembra sul punto di darci il suo commiato. Siamo in preda ad una nostalgia strana perché a bassa gittata: la quarantena è cominciata da troppo poco tempo per provare una vera e propria nostalgia per quello che è stato. Ci ritroviamo quindi a provare una nostalgia per quello che ancora è ma che abbiamo paura non sarà più.

È come, insomma, se ci guardassimo attorno con un cannocchiale rovesciato.

Più che da un luogo, scriviamo da un tempo. Un tempo sospeso (come ha scritto Vincenzo Figlioli in “Un mese di quarantena: le nostre vite sospese, il dovere di ripensare il nostro tempo“) in cui però le lancette continuano a ticchettare. Durante la quarantena abbiamo dovuto pure mandarle un’ora in avanti per rispettare l’ora legale. E, al contrario degli anni passati, lo abbiamo fatto in presa diretta, di notte, presi dall’insonnia di queste notti inutili per il riposo.

La quarantena ha sterilizzato le città: svuotato le strade, le piazze, i negozi, i centri commerciali, i bar, i ristoranti, le palestre, le piste ciclabili e i percorsi per i runner, le scuole, i lungomare, i parchi, i cinema, i Teatri, i pub, svuotato tutto, finanche le Chiese.

Da riempire c’è rimasto questo tempo. Un tempo sospeso a cui dare un senso. Un tempo tutto da inventare. E tocca a noi.

Avremmo dovuto farlo prima. Lo dico a nome della mia generazione e di quella appena successiva (quarantenni, trentenni).

Avremmo dovuto avere più coraggio, fare sentire di più il nostro scontento, la nostra frustrazione per quest’Italia governata da settantenni, ferma da decenni, che non crea lavoro e non crea ricchezza, che tiene i giovani fuori dal mondo del lavoro o in stato di sottoccupazione, un paese in cui contano di più le relazioni che le competenze, un paese in cui sembra da incoscienti pensare di mettere su famiglia e fare figli, un paese incapace di programmare e immaginare un futuro e che quindi attingeva al risparmio delle generazioni precedenti e consumava come non ci fosse un domani.

Solo che le riserve a cui abbiamo attinto in questi anni per mantenere costante il nostro stile di vita stavano già per finire. La pandemia, molto probabilmente, accelererà questo processo. Game over.

Il domani è già arrivato, il domani è oggi.

Detta così sembra eccitante, sembra una sfida. Solo che a doverla affrontare, per primi, siamo proprio noi che facciamo parte dell’unica generazione che non ha mai voluto cambiare niente, neanche il gusto della pizza il sabato sera, figurati se vuole cambiare il mondo. Tutto questo a noi appare più che una sfida, una sfiga.

E allora questo tempo, intanto, lo stiamo impiegando impastando pane e pizza e pasta fresca fatta in casa, stiamo facendo crostate e torte e biancomangiare, come non abbiamo fatto mai. Come se, facendo le cose che facevano i nostri genitori e i nostri nonni, ci preparassimo ad essere forti e bravi come loro, che riuscirono a fare ripartire il Paese nel dopoguerra.

Il rischio è che non solo non siamo pronti, ma neanche vogliamo prepararci perché troppo abituati a rimandare.

Come se, finita la quarantena, non dipendesse anche da noi scegliere tra gli oggetti, le idee, i modelli che ci si pareranno davanti, da cosa provare a ripartire e cosa invece archiviare come reperto archeologico.

Come se, da tutto questo, non ci fosse nulla da imparare sul mondo che abbiamo lasciato costruire e abbiamo costruito con le nostre inadempienze.

Impastiamo pane e sforniamo torte, trasformando questo tempo sospeso in un semplice tempo di attesa, sperando che la parola “ripartenza” e “rimboccarsi le maniche” significhi semplicemente, dopo il forzato periodo di fermo, “riprendere la vita di prima, prima del covid 19”. E quando abbiamo paura di non poter tornare alla vita di prima, non pensiamo agli abbracci e ai baci, pensiamo ai consumi di prima, non facciamo gli ipocriti, per favore!

Il rischio è che l’annuncio della fine della quarantena ci colga di sorpresa, davanti alla tv, mentre impastiamo il pane, e rimarremo tutti fermi con le mani in aria, senza sapere che fare, con la sensazione di non aver sentito bene e l’impossibilità di prendere il telecomando e aumentare il volume perché abbiamo le mani sporche di farina.

E mi viene in mente un dialogo di “Salvate il soldato Ryan”, un film sulla seconda guerra mondiale, in cui un soldato, in prima linea, appreso che il nemico stava per arrivare e che era ben armato e numericamente dieci volte più forte, domandò al comandante:

“Allora signore, quali sono gli ordini?”

“Sergente, abbiamo oltrepassato uno strano confine oggi: il nostro mondo ha sterzato sul surreale!” rispose il comandante

“È vero signore, ma la domanda rimane …” concluse il soldato.

Già, la domanda rimane: che fare quando la quarantena sarà finita?

Potremmo, per esempio, cominciare col fare un catalogo delle cose da difendere per il futuro e delle cose da archiviare come reperto di un’epoca passata.

Renato Polizzi

*“Archeologia del presente” è il titolo di un libro di Sebastiano Vassalli in cui l’autore cerca di tracciare un bilancio di cosa è rimasto dei bei ideali del ’68 agli inizi degli anni duemila.

Renato Polizzi

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