Già, dove eravamo rimasti?
Proprio prima che scoppiasse l’emergenza pandemia è stato pubblicato uno studio del sociologo Luca Ricolfi che ci regalava una fotografia quanto mai esaustiva della società italiana. Dati alla mano, Ricolfi giunge alla conclusione che la società italiana degli ultimi decenni è una “Società Signorile di Massa”.
Cioè una società in cui ricorrono insieme tutte e tre queste condizioni:
Riassumendo, possiamo dire che la società italiana è imprigionata da anni in un vortice in cui le nuove generazioni, pur essendo scolarizzate come mai nel passato, sono fuori dal mercato del lavoro e ingrossano le file dei disoccupati e sottoccupati; il tasso di natalità è sotto lo zero (nel 2019 ogni 100 morti si sono registrati solo 67 nuovi nati); la popolazione invecchia in modo lento ma inesorabile facendo dell’Italia uno dei paesi più vecchi al mondo e aumentando a dismisura il peso delle spese previdenziali sul sistema paese; la produttività del lavoro è tra i più bassi in Europa; l’economia è in stagnazione. Nonostante ciò, i consumi di massa si sono fino ad ora mantenuti opulenti.
In breve, come sistema Paese siamo in crisi, più poveri e con meno prospettive ma non ce ne siamo accorti, perché consumiamo di più.
Vi ricordate Berlusconi che, di fronte agli impietosi dati Istat sullo stato del Paese, rispondeva: “Io non vedo questa crisi, vedo i ristoranti e le pizzerie pieni”? Aveva ragione l’Istat e aveva ragione anche Berlusconi.
Tutto questo è stato possibile perché nei momenti di crisi, piuttosto che cambiare stile di vita e consumare meno, abbiamo preferito erodere i risparmi accumulati dai padri. Una ricchezza fatta di prime e seconde case, conti correnti più o meno floridi, e relative rendite. Per il resto, per i beni di prima necessità, è bastato basare la nostra società su una struttura paraschiavistica che paga pochissimo e in nero il lavoro agli immigrati e alle classi più disagiate. Sappiamo tutti che una fetta importante della nostra economia poggia sullo sfruttamento di manodopera sottopagata e senza diritti, importata dall’est europeo o dall’africa, per svolgere lavori sgradevoli come l’edilizia, il lavoro stagionale dei campi, i servizi domestici, ecc.
Lo sappiamo tutti, ma quando sentiamo parlare di “economia” rimuoviamo che questa parola vuol dire: i nostri consumi, il nostro tenore di vita.
Ecco, qui eravamo rimasti.
Cosa succederà quando finirà questa pandemia?
Gli opinionisti si stanno dividendo.
Alcuni pensano che questa sarà semplicemente una parentesi, traumatica, con delle conseguenze ma una parentesi. Finita l’emergenza, passato un po’ di tempo, si tornerà alle vecchie abitudini. Come sempre è successo dopo le pandemie, nei secoli: le città di fronte alla peste si chiudevano dentro le mura. Passata la peste si tornava alla vita di prima. Poi si riapriva. Fino alla peste successiva.
Altri invece credono che questa epidemia segnerà uno spartiacque. Ci sarà un prima e un dopo l’emergenza Covid 19.
Mi piacerebbe pensarla come i primi. E forse per alcuni Paesi sarà così: questa emergenza sarà solo una parentesi dalla quale riprendersi rimboccandosi le maniche ma tutto, prima o poi, tornerà come prima.
Non credo che sarà così per il nostro Paese.
Se è veritiera – e lo è – la fotografia che Ricolfi faceva dell’Italia di questi ultimi decenni, oggi, riprendendo in mano quel libro, sappiamo che questa istantanea potrebbe essere invecchiata o invecchiare nel più breve tempo possibile. Quella era l’Italia degli ultimi decenni. Ma era l’Italia prima del Covid 19.
Ora, di quest’Italia ferma da decenni, che non creava lavoro e non creava ricchezza, che attingeva al risparmio delle generazioni precedenti e consumava come non ci fosse un domani, che rimarrà?
Perché il domani è già arrivato, il domani è oggi.
Il nostro paese, i risparmi a cui attingere in caso di emergenza, il tempo per guardarsi attorno e capire che fare, il tempo per includere nel circuito economico giovani generazione e migranti, li ha già consumati, direi sprecati. L’Italia è l’unico caso di società signorile di massa al mondo. Nessun altro Paese è ricco e allo stesso tempo fragile come il nostro. Già nell’ormai lontanissimo ottobre 2019 Ricolfi avvisava: “i soldi finiranno. Spiace metterla così, ma – se nulla cambia – è difficile immaginare un esito diverso” per poi continuare, quasi profeticamente: “se nulla si fa, il nostro stupefacente equilibrio è destinato a rompersi, quando la stagnazione si trasformerà in declino”.
Ecco cosa c’è dietro le grida di allarme, che ci appaiono quasi scomposte e fuori tempo, dei politici e degli imprenditori che ci avvisano che “senza stagionali immigrati” rischiamo che nessuno raccolga i nostri raccolti, nessuno raccolga le materie prime che riempiono gli scaffali dei nostri supermercati.
Già, con le frontiere chiuse, le quarantene necessarie e la necessità di controllare chi è in giro per evitare il propagarsi dell’epidemia, chi si occuperà della raccolta nei campi? Finita la possibilità di affidare il lavoro in nero, quanto costeranno i pomodori, la passata di pomodori, le arance, l’olio? Quanto costeranno i beni di prima necessità che abbiamo fino ad ora dato per scontati?
Prima dei soldi, per il nostro Paese, è finito il tempo. L’emergenza covid 19 ha semplicemente accelerato un processo che era già nelle cose.
E nei titoli di coda del vecchio palinsesto vediamo scorrere le parole di una poesia straordinaria di Bob Dylan:
“Voi tutti venitemi intorno,
non importa dove andate,
ammettetelo che l’acqua
intorno vi è cresciuta,
rassegnatevi ché presto
avrete fradice le ossa.
Se vi preme di salvare quel tempo che vi resta
Mettetevi a nuotare o affonderete come un sasso,
perché i tempi stanno per cambiare.
[…]
Venite madri e padri
Da tutto il paese,
e non criticate
quello che capire non potete.
[…]
La vostra vecchia via sta decadendo molto in fretta,
state a lato della nuova se non potete dare una mano,
perché i tempi stanno cambiando.
La riga è tracciata,
la maledizione è scagliata,
chi adesso va lento
andrà infine veloce,
così come il presente
sarà presto passato.
Rapido l’ordine sta per svanire,
chi ora è primo presto l’ultimo sarà,
perché i tempi stanno per cambiare.