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La censura sovranista

Non c’è nulla di più stupido della censura. Eppure, la Repubblica Italiana, fin dalla sua genesi, fa i conti con un’idea di potere che si alimenta anche della messa all’indice di opere ritenute “sconvenienti”. Giulio Andreotti, da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo, bollò come “disfattista” il capolavoro di Vittorio De Sica – “Umberto D.” – che non fu mai trasmesso in tv in prima serata. Tra gli anni ’60 e gli anni ’70, la censura si abbattè anche su altri grandi cineasti italiani, da Luchino Visconti (“Rocco e i suoi fratelli”, tagliato di 15 minuti rispetto alla stesura originale), a Bernardo Bertolucci (“Ultimo tango a Parigi”, di cui furono bruciate in maniera ignominiosa quasi tutte le copie), fino a Pier Paolo Pasolini (dalle prime opere fino a “Salò o le 120 giornate di Sodoma”). Un capitolo a parte lo merita la Rai, che per una discutibile idea di servizio pubblico che accomuna l’Italia a certe dittature sudamericane, è stata sempre più oggetto di intromissioni da parte del potere politico. Il premio Nobel Dario Fo rimase fuori dalla tv di Stato per oltre 20 anni, come più tardi avvenne anche per Beppe Grillo, che pagò la sua satira contro i socialisti e certe sortite contro i colossi dell’economia nazionale. Piuttosto recente è l’editto bulgaro con cui Silvio Berlusconi indusse l’estromissione dalla Rai di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi.

Mai, probabilmente, avremmo immaginato di dover inserire nell’elenco dei censurati uno dei volti più popolari della tv italiana, quel Beppe Fiorello che con le sue interpretazioni (da Salvo D’Acquisto a Joe Petrosino, fino a Domenico Modugno) ha spesso regalato ascolti da record al servizio pubblico. Stavolta però l’attore siciliano ha interpretato un ruolo poco gradito alla nuova dirigenza sovranista della Rai, che da due anni tiene fuori dai propri palinsesti la fiction girata a Riace in cui Beppe Fiorello interpreta l’ex sindaco Mimmo Lucano. Si dirà che la vicenda giudiziaria del politico calabrese è ancora aperta e la messa in onda della fiction sarebbe sconveniente in questa fase. Ma il principio della separazione dei poteri dovrebbe farci sentire sufficientemente garantiti senza dover necessariamente proibire la trasmissione di un film che ha comunque il merito di rappresentare un’idea di Sud diversa, lontana dalla rassegnazione o dall’oleografia che caratterizzano gran parte delle produzioni girate da Napoli in giù. Per quanto mi riguarda, di sconveniente, oltre che di antidemocratico, vedo solo l’ottusità con cui, nel 2019, l’Italia continua a regalare patetiche rappresentazioni di un potere che, con il supporto degli immancabili cortigiani, continua a temere la libera circolazione delle idee, cercando di imporre un pensiero unico preconfezionato che non tollera racconti alternativi.

Vincenzo Figlioli

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