“Sei brava a scrivere, dovresti pubblicare un libro”.
Sì, certo. Lo vorrei davvero. Il tema sarebbe ovviamente la maternità e il complesso rapporto tra mamma e figli. Semplice. Ho già pensato al titolo. “Cinquanta sfumature di cacca. (Sottotitolo: dimmi di che colore è e ti dirò chi sei).
Inizierei con una cosetta classica. Na roba tipo: “Nel mezzo del cammin della nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che’ la diritta via era smarrita. Ero incinta”. Oppure “ho fatto il test di gravidanza e Oh Bella Ciao, Bella Ciao, Bella Ciao, Ciao, Ciao”.
Perché tanto di bella qui non rimane granché.
Ci penso sempre. Ogni mattina mi sveglio, mi alzo e calpesto, nell’ordine, una costruzione in gomma, un unicorno fluo, un biscotto che giace a terra da chissà quanti mesi, mi dirigo verso la cucina con un lego conficcato nella pianta del piede, preparo il latte per mia figlia che deve essere tiepido, ma non troppo caldo e nemmeno troppo freddo. Deve essere tiepido al punto giusto, se no è ‘na tragedia. Dicevo, ogni mattina, al risveglio penso esattamente questo. Perché non scrivere un libro sulla gioia di essere mamma. Sul cosleeping e su quanto è bello dormire insieme, abbracciati e fare sonni tranquilli. Dopo aver passato la notte in bianco, rintanata nell’angolino più esterno del letto, con un piede di mia figlia conficcato sotto la costola e una mano dentro il naso. Che bello dormire insieme. Fa bene al bambino, certo. Dovrei proprio scriverlo.
Penso a come potrei raccontare delle gioie della quotidianità, dai felicissimi mesi di gravidanza, allegramente segnati da nausea e vomito, fino ai terribili due anni. Ma anche i maledetti tre. Gli odiosi quattro. Gli insopportabili cinque. E così via fino a quando lo scricciolo non diventa maggiorenne.
Sì, scriviamolo un libro. Su quanto siamo equilibrate noi mamme. Che un momento sembriamo dolci come la mamma di Topo Tip. Il momento dopo ci trasformiamo e diventiamo Hulk. Al femminile.
Ma sì, scriviamo di quanto siano belli i neonati, con il loro profumo che ti inebria la mente. Di quanto siano forti e robusti, che una malattia la prendono soltanto due volte al mese, alternata da vaccini, contagi, colichette e chi più ne ha più ne metta.
Di quanto piacevoli siano le visite post parto. Che tu ricevi persone a casa e l’unica cosa che vorresti è lanciare il bimbo con la speranza che la nonna più veloce lo prenda al volo per poter andare a fare otto ore di sonno. Di fila. Senza interruzioni, cambio pannolino, pappa e ruttino finale.
Eh, bella la maternità. Devo proprio scriverlo. Serena, tranquilla, pacifica. Mica come quella volta quando ho lanciato una scarpa contro una porta. E non ricordo nemmeno il motivo. Sarà stata colpa degli ormoni, come al solito.
Un capitolo intero lo dedicherei proprio a loro, ora che ci penso. Gli ormoni. Simpatici, davvero. Guardi una pubblicità di pannolini e piangi. Ascolti Despacito e piangi. Attraversi la strada, sulle strisce pedonali, senza che nessuno ti metta sotto. E piangi. Del resto è una scena commovente.
Ma l’ultimo capitolo, consentitemelo, lo intitolerei “Margarita”. No, mia figlia si chiama Chiara, sappiatelo. Lo chiamerei “Margarita” come quel cocktail che ho tanto ma tanto desiderato tutte quelle volte in cui mia figlia ha urlato a squarciagola “mamma, mamma, mamma”, per il più futile, impensabile, il più insensato e scemo motivo del mondo. Ed io, lì, incerta se ridere o piangere, ho pensato migliaia di volte a quanto sarebbe stato bello sedersi sul divano, sola, a guardare Patrick Dempsey in tv, e farmi un Margarita intero. Senza ghiaccio. Con sale e limone. E tante, ma tante, tante patatine al sale e formaggio.
Michela Albertini