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Il tempo del cinismo

C’è stato un momento in cui, senza che ne accorgessimo, il nostro linguaggio ha subito un’inquietante mutazione. Improvvisamente, per cause imprecisate, ha perso umanità guadagnando cinismo. E’ stato un percorso graduale, come un ruscello che via via si ingrossa fino a diventare un impetuoso torrente pronto a straripare. Difficile individuare l’origine di quest’imbarbarimento, ma è come se, da un certo punto in poi, avessimo cominciato a pensare che il nostro modo di comunicare fosse tanto più intelligente ed efficace quanto più lontano dalla retorica delle buone maniere. Da qui la lotta al “buonismo” e al politicamente corretto che, secondo alcuni, ci avrebbe dovuti portare a una nuova era, in cui l’annientamento dell’ipocrisia avrebbe restituito autenticità alle nostre esistenze. Il problema è che il ruscello è da tempo diventato qualcos’altro, scatenandosi ben oltre gli argini fino a provocare danni sociali e culturali paragonabili a uno tsunami. Accade così che un deputato regionale non trovi nulla di strano a esprimersi in maniera superficiale mentre parla del servizio di assistenza ai minori autistici, lasciando intendere che per lui e i suoi amici sia poco più che un business. E dire che, per una vera e propria beffa del destino, uno dei principali sponsor per l’ingresso di Paolo Ruggirello nel Pd, sia stato proprio quel Davide Faraone che ha più volte preso posizione sull’argomento, portando la propria testimonianza di genitore di una figlia affetta da disturbi dello spettro autistico.

Anche qui, naturalmente, il caso particolare ci consente una riflessione più ampia. Perché, per quanto mi riguarda, sono certo che altri politici abbiano utilizzato termini affini a quelli con cui si è espresso Ruggirello per parlare di altri temi socialmente delicati: qualcuno avrà “benedetto” l’esodo dei migranti in fuga da guerre e persecuzioni, qualcun altro i malati oncologici o i disabili. E mi sento di dire che nessun interlocutore, di fronte alle suddette espressioni, si sia azzardato a esprimere autenticamente il proprio disappunto, magari per non venire tacciato di ipocrisia e buonismo. Del resto, siamo il Paese in cui qualcuno osò esultare dopo il terremoto che distrusse L’Aquila, leccandosi i baffi per i lavori di ricostruzione che intravedeva dietro l’angolo. E allora, mi ritrovo sempre più a pensare che l’unica speranza per riscattarci dall’abbrutimento passi dalla capacità di riprendere familiarità con l’ormai desueto sentimento dell’empatia: ci consentirebbe di superare l’individualismo che storicamente ci penalizza per riscoprirci finalmente più solidali. Ma stavolta nel senso più autentico del termine.

Vincenzo Figlioli

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