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“Dalle discrasie di Giovanni Fontana, insorgenze neghentropiche” di Antonino Contiliano

Discrasie1: un presupposto come sistema. Sessioni metacritiche: un campo di mutamenti e trasformazioni del/nel sistema. Un sistema di fasi che correlano in circolo il presimbolico – lo stato di mescolanza caotico del quid materico delle dis-crasie in brodo quantico – e le diramazioni analitiche della critica come campo di atti logo-linguistici differenziali in onda artistica ritmico-po(i)etica – separazione, distinzione, esame, giudizio, valutazione, giudizio. Atti che incidono la miscela delle discrasie e le mettono in frequenza enunciativa inscrivendone l’individuazione testuale significante differenziale.

Una significazione che per le vie del senso mette in gioco anche un certo plurilinguismo inter-mediale anti-controllo per dare battaglia al degrado dell’informazione psico-collettiva impiegando il Pegaso utopico quanto emarginato dell’arte e della poesia (non a caso Marcello Carlino nel testo che accompagna il libro – Discrasie – sessioni metacritiche – di Giovanni Fontana, identifica lo stesso come un poliartista che sfrutta l’inter-medialità quale arma antagonista che scompagina il monolinguismo della comunicazione medusatizzata del postmoderno).

Una rete di operazioni tecniche che, incrociando così l’entropia della comunicazione devitalizzata con la dimensione critica e metacritica, ne sfronda il degrado e ne recupera l’energia stabilizzata dandole una forma che rinnova e amplifica l’informazione nella direzione di un incremento plastico del senso (J. Lotman riconosceva la funzione poetica del linguaggio nella sua capacità di rendere “plastica” la complessità della tessitura testuale di un componimento come strutturazione autonoma). Quella particolare forma testuale cioè che produce informazione altra, neghentropica: né chiusa né univocizzante ma strutturazione in divenire; un passaggio dinamico che la trasborda nell’orizzonte dell’amplificazione semantizzante ininterrotta, lasciandone le soglie per lo più sempre aperte attraverso una pratica scritturale vigile e pungente: una potenzialità semiotica mossa e accorta, critica e meta-critica. Anche la stessa scansione grafica, non per ultima la dimensione relativa alla punteggiatura, riceve il suo giusto movimento. È come se l’immaginazione produttiva suggerisse stesure fuori norma.

Il punto fermo della chiusura, per esempio, nella scala delle determinazioni del dire-scrivere ha poco o affatto spazio nei sintagmi impaginati e allineati nella fase del verso e delle strofe; e vari sono i connettivi che ne canalizzano la connessione concomitante. Anche le barre oblique – “ / ”– sembrano avere più di un uso: non solo pausale senso-semantico e tonale. Sono una soglia e al tempo stesso un limite che frantuma l’indeterminato di partenza, o del quasi detto delle “parole giuste” come aggancio al pre-formato – l’apeiron che precede e segue il potenziale, o l’espresso nello spazio esperito della pagina – per disciplinare una prassi di senso tendenziale; e ciò tuttavia senza la pretesa di esaurirne le insorgenze, i “tagli”.

Citiamo:

«[…] / funziona così / che il problema è come agire / come risalire al senso / rimediando per dissenso le parole giuste / da esaminare in fughe zigzaganti e laterali / in ombra e di profilo / espunte da contenuti banali / valorizzate nei minimi dettagli / puntando a perdere / con determinazione

funziona che devi riuscire a prevalere / per disperdere tracce in grovigli recuperati ad arte / in parte dislocati su tavoli anatomici / è la talpa che trivella cavi metropolitani / treni d’iterazioni in nanosecondi di cricche mentali / i linguaggi diagonali funambolicamente accorti estorcono polisemici afflati

il gioco è sulle denunce larvali / […]» (Questioni di tagli, p. 17).

Ma le denunce che il poliartista Fontana mette sul tappetto delle sue sessioni metacritiche hanno anche una topologia non larvale: sono anche quelle che la storia, in gloria apertis verbis della civiltà “ecclesiale” dello sfruttamento e dell’oppressione, ci ha lasciato e ci lascia come una vicenda ancora non espiata; siamo cioè nella storia della terra che svena le braccia migranti. Poco importa se il testo metacritico – “Palude” (pp. 35-38) – di Giovanni Fontana rimanda allo sfruttamento dei migranti stagionali consumato presso le paludi pontine del regno papale di una volta. Il fenomeno dei braccianti e dello sfruttamento, benché focalizzati al passato, non smettono di certo di alludere al presente della civiltà cristiano-occidentale modernizzante. Il testo “Palude”, infatti, allegoricamente, crediamo, non a caso, ad incipit di scrittura, pur preceduto dalla chiara indicazione “in memoria dei bracciati ciociari per secoli migranti stagionali nelle paludi pontine”, usa un presente indicativo:

«la palude incombe / incombeva / greve d’acqua e di melma / su poveri gesti villani / pantani d’inferno / d’insetti / d’infetti distretti / per fondi lacustri al demanio di terre papali / […]

la palude che incombe / incombeva / d’acque grevi e di melma / trenta miglia bastarde / […]

fu la fatica senza sorriso / ciclico impegno / a migliaia / i monelli in autunno trasmigrano strenui / le amare montagne alle spalle / […]

fu la fatica senza sorrisi / quando prìncipi latifondisti / mettono a frutto le terre e le acque / e s’ingegnano aspri / in tristi sistemi di caporalaggio / bestemmiano cuori croci e denari / è mano d’opera di derelitti / […]» (pp. 35, 36).

Il testo richiama alla memoria il tempo delle braccia dei migranti (interni ed esterni) e ne dice le condizioni di vita socio-individuale non certamente emancipatrici e gioiose; cosa che non estranea (anzi!) al nostro tempo di incivile civiltà neo-ordoliberista (basta un batter di ciglia all’inferno della nuova palude terraquea dell’Italia eurolandia, il Mediterraneo come fossa e cimitero dei nuovi popoli migranti). Ma il poliartista Fontana, nel caso indicato, manifesta pure il suo inequivocabile giudizio contundente (la dignità di chiunque e ciascuno, specie se deboli, non può essere offesa e lasciata al godimento sfruttatore dei masnadieri e manager di turno); e lo fa attraverso la scelta del “valore” di certe parole che significano lo status (anche temporale) di quanti assoggettati: “incombe, greve, grevi, senza sorriso/i, derelitti…”. Non è certo difficile, nel contesto, afferrarne il valore di denuncia e condanna cui Giovanni Fontana non intende rinunciare e, al tempo stesso, leggerlo come un invito a non dimenticare e a ribellarsi.

Una testualità artistico-poetica simbolica dunque, quella del nostro autore, poeta e artista che, secondo chi scrive, pone l’informazione sul piano di un rapporto neghentropico plastico e amplificante, così come è sapiente il suo giostrare una grammatica tendenziosa con gli elementi relazionali asemantici (come la punteggiatura, o un certo enjambement strofico, o le inversioni in uso che sferzano lo scambio standardizzato del mercato comunicativo) in connessione (in genere) con le stesse nozioni semantiche del linguaggio, o con gli strumenti della metaforizzazione, allegorizzazione, allitterazioni etc. L’esito, sempre secondo chi scrive, è la generazione di catene d’ordine neghentropiche destabilizzante l’entropia (il disordine) delle “discrasie”, invertendole in sorgenti da cui partire per organizzare l’ontogenesi di ogni com-posizione poetico-scritturale individualizzata ed erosiva.

Forse, per stare dentro e fuori a queste “discrasie” di Giovanni Fontana, non sarebbe inopportuno il richiamo al modello genetico-creativo di una colonia di coralli, o quello dei processi delle formazioni cristalline. In questi ambienti, mai saturi, infatti, come nell’impaginato artistico-poetico di Fontana, l’insieme è come un sistema sempre in crescita: una ramificazione delle parti in rapporto di ampliamento per successivi depositi topologico-temporali di semi costituenti e disciplinati tecnicamente. Una gemmazione cioè proliferante significazioni e senso per grammatica, sintassi e logica poetica non convenzionale (il mondo dell’arte e della poesia, solo per inciso, non ha referenza che propria; ma non per questo è proiettata meno alla destabilizzante del senso comune, o a colpire il regime politico-culturale della comunicazione ufficiale standardizzata e dominante: i tagli polisensi e deliranti sono colpi di aggressione al monolinguismo della comunicazione controllata, e non certo semplici rumori di fondo non canalizzati.

Così, se (per qualche esempio, crediamo pertinente) guardiamo la struttura formale del testo individuato come “IMAGO” del 2002 e dedicato a Sergio Zuccaro (pp. 11-14), possiamo vedere le sfasature utilizzate come dirompenti il consueto della formalizzazione rituale lì dove di in-formazioni in in-formazioni tra-ducono la significazione processuale come una decisione che fa scattare l’istante verbale e l’uscita dal ni-ente. Così i due punti (:) che danno inizio al dis-corso delle frequenze lineari – che nella forma della norma solita dovrebbero pur seguire un nucleo significante per poi iniziare una s-pieg-azione e poi chiuderla – precedono invece l’espressione esteriorizzata (quanto basta, già fin dall’inizio, per smuovere un’attenzione addormentata). Dal canto loro le barre oblique – “ / ”– che intervallano i sintagmi poetici di ogni strofa (come gli stessi sintagmi dei versi in linea), sembrano giocare più di una funzione: racchiudono allitterazioni e rime (espedienti d’arte come le anafore e i parallelismi); al tempo stesso sono membrana che consente il passaggio del messaggio da una parte all’altra, sì che la risonanza interna/esterna lascia che il discreto-continuum delle onde fono-semantiche curvi la “norma” e non serri il solvente.

«: che si voglia o no / imbracato bréttine e bretelle / cum bilanceri cintule e pulegge / […] / l’architectura spinge ad vacuum versus / […] / chiarisce appena i rischi / […] / ma deborda dai manoscritti per carenza d’equilibrio ribattendo i fischi / cosicché si scempia e scheggia / ogni conato di normalizzazione

: che si voglia o no con cura describere segretamente una serratura / di factura sicura / di mano experta / di caratura et mensura certa / per premura di scorta si eviti il chiavistello / e si apra bel bello il serrante con un verso solvente / […] » (p. 11).

Una processualità significante, queste “discrasie”, che amplifica, allora, senza stasi, l’informazione e la sua plasticità complessa come il gettito di una fontana turbo-lenta. Un itinerario già proprio alla lunga militanza pratica artistico-poetica di Giovanni Fontana. Di lui è nota l’attitudine a impiegare nel circuito creativo ogni risorsa che provenga dall’innovazione tecnica; e non ultima l’elettronica, la videoarte, il digitale (per inciso, sul piano dell’ontogenesi del testo poetico e della sua analisi, J. Lotman non ha fatto mistero di servirsi delle categorie della cibernetica e della biologia per aggiornare la lettura estetica e concettuale delle produzioni artistiche e poetiche contemporanee come autonoma testualità semiotica e fuori le ripetizioni svitalizzate). È in questo circuito, ci sembra, allora, che vada collocato il gesto finalizzato al mutamento combinatorio dell’artista e, fra le altre cose, suggeritoci dal prefisso ‘meta’ della sua poiesis testuale fra discrasie e meta-critica.

In queste sessioni metacritiche poietiche la pluralità dell’indeterminato – imago, erranze, palude, sequela della nebbia… –, tanto per richiamare alcune delle nozioni che costituiscono le “metacritiche”, traendolo dalle “discrasie” (mescolanze caotiche), si tras-forma in testo determinato denso e in tensione. Una tensione dirompente che trova la “parole” come via d’uscita e potenziamento logico e immaginativo di una lingua e di una significazione neghentropiche. Del resto la parola composita meta-critica, e non a caso, ci sembra che, correlata alla parola dis-crasia (dys-crasía, la mescolanza caotica), sia l’indice di un discorso “metastabile” plurivocizzante, polisemico e in combutta, con ragione e volontà, contro la stabilità dell’ordine votato all’univocità passivizzate del massmediale imperante e statico.

In quest’altra prova del poliartista Fontana, che confligge la possibilità dell’entropia dell’informazione sempre in agguato, la discrasia non è lasciata alla sua nuda amorfità. Le sessioni giocano infatti altre direzioni di senso; sembrano piuttosto, ci permettiamo un’analogia, delle “sedute” di schizoanalisi anti-edipica; una scissione che, alla stregua di una costellazione di elementi anti-sistema-mondo, libera il desiderio destrutturante l’ordine reale, mentre le correlate tangenti e contingenti amplificano l’informazione conflittuale e resistente piuttosto che ridurla e semplificarla! Un bagno nel gruppo di testi, raggruppati sotto la nominazione di «DISLESSIA COREOGRAFICA – Imbastiture sonore» – Transverse projection, Seduzione, Corpi liberi, Amazzoni – Scultura vivente, Corpo a corpo, Conflitto, Frammentazioni – Flash back, War dance, Danza del vento, Lacerazioni, Centaura, Danza rituale, Pentachillea, Hard Body, La violazione delle regole, Oltraggi, Scontro, Furore, Amplesso, Danza d’Amoremorte – Corpo a corpo, Finale dance –, direbbe molto sull’erranza poetica sussunta sotto la voce del desiderio, delle contraddizioni, delle “deformazioni” e all’ottimismo

«[…] / avvelenato dall’anacronismo dei tuoi fardelli di informazioni stinte / […] sovrapponile allo schermo panoramico dei cristalli liquidi che viaggiano / nelle pliche / nelle pliche stagne / nelle pliche dei cervelli impermeabili al dubbio / […] / in profili trasmigranti di contraddizioni / su per l’invidia dell’altrui sesso / […] / da passo a passo: ora è lui che sembra minacciare con passione» (CORPI LIBERI, p. 66).

Ora (per finire) uno scorcio di veduta con alcune battute di CORPO A CORPO e di SCONTRO.

CORPO A CORPO:

«Senti la seduzione / sale nel brivido della partecipazione / senti / soggioga posizioni / guarda / assedia / arrocca / e come stringe / ruba il metro del destino / allora tu segui sulla diagonale il suo destino e il tuo e il metro dei tuoi passi / […] / niente è descritto nei dettagli che deviano lo sguardo : ciò che è certo è l’incerto del combattimento» (p. 67).

SCONTRO:

«Invasero / così / guarda / con fortissimo impatto / lo spazio del loro peccare d’innocenza criminale / tu / senti / così / come dalle vertigini estreme scaturiscano lampi di ribellione / contro inutili tentativi di arresto / […] / oltre le balze ripide della speranza / rapide le vergini / enfatizzando / sazie / per sensazione di perdita / ondeggiano le vittime […] / sbilenco il diritto nelle procedure : poi sembra che la ripresa sciolga dubbi a favore dell’eroe blasfemo» (pp. 72-73).

Come, allora, non con-dividere questa ribellione blasfema della speranza disperata in un tempo in cui il finale di partita capitalistica si gioca sull’asservimento, lo sfruttamento e l’indebitamento infinito dei corpi?

E come non sentire il pungolo di tutte le altre sollecitazioni del tempo (tracciate e avvertite in tutti gli altri testi – non tutti qui citati – del libro di Giovanni Fontana) quale dimensione trasversale e trans-individuale che nulla nasconde alla conoscenza indagatrice dei soggetti e della storia transeunte, mentre, tra cecità e memoria, ne impasta i giochi di identità? Il poeta (alludendo, allegorizzando, sfruttando le ambiguità espressive della lingua e delle figure e le cromo-sonorità di richiamo aggreganti…) ne lascia memoria con un memento di finitura e passo dopo passo negli ultimi due testi della sua raccolta: PAS à PAS – testo del 2018 e dedicato à Julien Blain – e FINISSAGE, testo del 2012.

Qualche stralcio:

«pas à pas … misura il percorso attentamente / e conta i passi scrupolosamente / il veut changer les données du jeu / ecco / l’esuberanza inquieta del temperamento / istinto / essenza / maschera / camuffamento / fuori dai modelli / pronta a smontare storie / […]

pas à pas … le droit du joueur / je crois / si sa / ingrana il gioco delle identità / pour battre à nouveaux le cartes / vedi / voilà / il a tous le atouts en main / […] / in programmi di poesia processo / parole-specchio / di idee di cromosuoni / il a décideé de réécrire l’histoire / […]» (Pas à Pas, p. 123);

«ceruli abissi / squassi / profondità di glomeruli in esercizi iperbarici / ovarici dilemmi / lemmi in connessione autorganizzate / per pieghe e pieghe / quando il sistema dinamico accende figure e lingua / […]

disbriga le pratiche diurne / organizza fortune notturne e trionfi in eccesso di memoria esaltante / […] / dove il nome del padre / la madre di ogni parola / è custode del tempo / […]

guarda / ché cellulari le trecce s’immergono / sfilacciate in brandelli / d’esistenza e coscienza / di attenzioni morbose / per macchinazioni fertili del mito / che storna e ritorna / […] / lancia gli sguardi oltre la soglia / […] / sembra / il mondo in molti scorrimenti

glosse nucleari di materie grigie / la tessitrice si riguarda ombrosa dentro / ed intercetta lumi che chiariscono il senso del progetto d’opera / e ripesca in profondo / […] / in procedimenti di decostruzione dove / dove l’io si rimette in discussione» (Finissage, pp. 129, 130).

Antonino Contiliano

redazione

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