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Processo Perricone, il collaboratore di giustizia Giuseppe Ferro: “L'ex vicesindaco pagò alla mafia 465 milioni”

Il 3% è la cifra stabilita da Matteo Messina Denaro, tra i latitanti più ricercati al mondo, a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90, ma tutt’ora vigente, richiesta alle imprese che si aggiudicano gli appalti pubblici nel territorio trapanese. A confermarlo è stato l’ex capomafia di Alcamo sentito mercoledì mattina come teste nell’ambito del processo a carico dell’ex vicesindaco della città, nel quale sono coimputati altri tre soggetti.
Si è svolta nella tarda mattinata di mercoledì l’udienza del procedimento giudiziario nel quale è imputato lo storico esponente del PSI alcamese, Pasquale Perricone. Collegato in video-conferenza da una località protetta, il collaboratore di giustizia Giuseppe Ferro, assistito dall’avvocato d’ufficio, Giulio Vulpitta, ha confermato, davanti al giudice Piero Grillo, quanto dichiarato ai sostituiti procuratori di Trapani, la dottoressa Rossana Penna e il dottore Marco Verzera, nel corso dell’interrogatorio svoltosi nel 2014. I magistrati stavano svolgendo le indagini dell’inchiesta “Affari sporchi” che ha condotto all’arresto nel 2016 dell’ex vicesindaco. In particolare, l’ex capomafia ha ricostruito l’affidamento della costruzione dell’acquedotto e parte della rete idrica di Alcamo, appaltate ad alcune imprese locali negli anni ’90.
Giuseppe Ferro, arrestato per la prima volta nel 1985, è uscito dal carcere nell’89. Fino al 1992 ha ricoperto il ruolo di “uomo d’onore” e aveva come riferimento il capomandamento dell’epoca Vincenzo Milazzo. Alla morte di quest’ultimo, ucciso nell’ambito della guerra di mafia contro la famiglia Greco, Giuseppe Ferro ha preso il suo posto diventando il capomafia della città di Alcamo fino al 1995, quando si sono riaperte per lui le porte del penitenziario. L’allora capomafia è stato destinatario di diverse condanne definitive per associazione a delinquere di tipo mafioso, strage, devastazione, detenzione di armi, estorsione ed omicidio. Nel giugno del 1997 ha iniziato a collaborare con la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) di Palermo. Nei diversi processi a suo carico, tra cui anche quello nato dall’operazione “Arca”, Giuseppe Ferro aveva indicato l’imprenditore e politico Pasquale Perricone come “vicino” alla famiglia mafiosa di Alcamo e amministratore pubblico in grado di adoperarsi per truccare le gare d’appalto all’interno del Comune.
Nel corso dell’esame di mercoledì mattina, effettuato dalla dottoressa Penna, nell’ambito appunto del processo a carico dell’ex vicesindaco, in cui sono coimputati Maria Lucia Perricone, Marianna Cottone ed Emanuele Asta, il collaboratore di giustizia ha riferito che tra le imprese che si sono aggiudicate i lavori dell’importante opera pubblica succitata, costata 15 miliardi delle vecchie lire, figurava la CEA, la società che gli inquirenti pensano sia stata amministrata occultamente da Pasquale Perricone e che è coinvolta nella vicenda del sequestro dei lavori del Porto di Castellammare del Golfo nel 2010. Quando l’acquedotto di Alcamo è stato appaltato nel 1990 dal Comune, guidato allora dalla giunta di Vito Turano, padre dell’attuale assessore regionale Mimmo Turano, Pasquale Perricone rivestiva la carica di vicesindaco. Ad aggiudicarsi, quindi, la gara sono state le imprese locali che facevano capo a: Vincenzo Perricone, padre di Pasquale, Ernesto Emmolo, Giuseppe Cassarà e Antonio Spinelli. Il teste Giuseppe Ferro ha, inoltre, spiegato che ad Alcamo le imprese aggiudicatrici di pubblici appalti dovevano versare alla famiglia mafiosa della città, il cui reggente era allora Vincenzo Milazzo, la percentuale del 3% del prezzo corrisposto dall’ente pubblico. Tale cifra è stata stabilita dal latitante Matteo Messina Denaro nel corso di una riunione tra capimafia svoltasi a Partinico in quegli anni. Il collaboratore di giustizia ha aggiunto, inoltre, che, generalmente, le imprese che partecipavano alle gare d’appalto si accordavano prima tra di loro e Cosa Nostra interveniva solamente per dirimere eventuali controversie. Per quanto concerne i lavori dell’acquedotto e di parte della rete idrica di Alcamo, aggiudicati all’ATI (Associazione Temporanea d’Imprese) guidata dalla Consop di Forlì, alla quale era associata la CEA, il teste Ferro ha dichiarato che sono stati affidati a quest’ultima su indicazione proprio della mafia.
Inoltre, l’ex capomandamento ha dichiarato che è stato Pasquale Perricone a fungere da collettore tra le imprese e “cosa nostra” alcamese, consegnando i 465 milioni di lire, a rate, ossia il 3% dell’importo dell’appalto, quella che il collaboratore di giustizia nel corso dell’udienza ha definito la “tassa alla mafia”. Detta somma di denaro è stata poi investita nel caseificio di Luigi Cacioppo acquistato con i soldi della famiglia mafiosa alcamese. A proposito dell’intervento di “cosa nostra” in caso di controversie tra gli imprenditori, l’ex capomafia Giuseppe Ferro ha raccontato un’altra vicenda, quella relativa alla gara d’appalto di Contrada Crocicchia, la strada sotto il cosiddetto “Bastione” di Alcamo, tra il ‘94 e il ’95. L’assegnazione dei lavori di quest’opera pubblica, dell’importo di circa 4 miliardi, prevedeva la licitazione privata di 14 imprese. Tra queste partecipava anche quella di un imprenditore di San Giuseppe Jato, tale Spina, il quale in contrasto con le altre ditte dissentiva dall’accordo di dovere affidare l’aggiudicazione della gara all’impresa CEA, non più presieduta dal padre dell’ex vicesindaco di Alcamo (presente comunque nel consiglio di amministrazione dal ’90 al ’93), ma da un muratore, non ben identificato dal teste (probabilmente tale Rosario Maniscalchi), e gestita in realtà da Pasquale Perricone. È stato Giuseppe Ferro, in un primo momento, ad informare il boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, del comportamento non allineato dell’imprenditore, raccomandandogli quindi di “catechizzarlo”. Successivamente, l’ex capomafia di Alcamo, ha incaricato tale Pioggia, amico dello Spina, a convincerlo e ad accettare quanto stabilito da “cosa nostra”. Delle buste contenenti le offerte da presentare all’ente pubblico per l’aggiudicazione dei lavori, poi, non è pervenuta solamente propria quella dell’imprenditore di San Giuseppe Jato. In questo caso, l’appalto pubblico è stato affidato al Consorzio Cooperative di Bologna che ha assegnato alle CEA i rispettivi lavori. Per quest’opera Perricone versò alla mafia 70 milioni di lire, sempre in rate.
L’interrogatorio del teste Ferro, da parte dell’accusa, si è concentrato poi sui rapporti tra l’ex capomafia e il politico alcamese. Il collaboratore di giustizia ha illustrato di avere con l’ex vicesindaco di Alcamo una parentela in comune. Infatti, la zia paterna di Pasquale Perricone, Tommasa Perricone, è coniugata con Antonino Messana, coinvolto nella strage dei Georgofili di Firenze, il quale a sua volta è fratello della moglie di Giuseppe Ferro per l’appunto. Nello specifico, il collaboratore di giustizia ha raccontato l’episodio in cui il cognato, venuto appositamente da Firenze per svolgere la funzione di “garante”, ha accompagnato padre e figlio Perricone a casa dell’ex boss, quando è stato scarcerato nell’89, per chiedere il suo intervento. Tra il 1989 e il 1990,infatti, vi erano state le elezioni comunali ad Alcamo. Pasquale Perricone e un certo Pirrone (legato alla contrapposta famiglia mafiosa dei Greco) erano in corsa nel partito socialista. Quando il Pirrone venne fatto fuori politicamente, Pasquale Perricone, sapendo che era cognato di tale Domenico Accardo, socio di Antonino Melodia (capomafia sostituito dal fratello Ignazio Melodia arrestato nel corso dell’operazione Freezer del 2017), iniziò a temere ritorsioni e così si è rivolto all’ex capomafia. Nell’ambito di quell’incontro, Giuseppe Ferro apprendeva dal cognato Antonino Messana che il nipote, Pasquale Periccone, era un imprenditore edile e che in cambio di tale favore si sarebbe “messo a disposizione”. Il teste ha specificato che all’interno del Comune di Alcamo tra il ’90 e il ’95 la mafia aveva più soggetti come riferimenti, tra cui anche il geometra Vincenzo Lombardo, al quale era stata bruciata pure un’auto, ed esponenti politici del Partito Socialista, tra cui Pasquale Perricone per l’appunto. Giuseppe Ferro ha dichiarato, inoltre, di non avere mai chiesto nulla all’ex vicesindaco, ma che se gli fosse servito qualcosa glielo avrebbe comunicato proprio in virtù del rapporto stabilitosi successivamente all’incontro di cui sopra.
Il teste ha fatto degli altri esempi di interlocuzione con Pasquale Perricone, il quale si era interessato in passato anche all’appalto pubblico del gasdotto di Castellammare del Golfo. Per quella gara, però, la mafia aveva stabilito che doveva essere aggiudicata ad un’impresa di Palermo.
Nel corso dell’interrogatorio del teste, la difesa dell’ex vicesindaco, rappresentata dall’avvocato Giuseppe Benenati, puntando presumibilmente sulla tesi dell’estorsione ai danni del suo assistito, ha chiesto al teste se il 3% che Perricone avrebbe pagato alla famiglia mafiosa di Alcamo potesse essere definito come “pizzo” al quale gli imprenditori erano appunto soggetti all’epoca e quali conseguenze avrebbero avuto se non avessero pagato. Il collaboratore di giustizia, come sopra anticipato, ha definito “tassa alla mafia” la percentuale richiesta agli imprenditori che avrebbero pagato con la propria pelle un loro eventuale rifiuto.
Prima dell’esame dell’ex capomafia, è stato sentito come teste il colonnello della Guardia di finanza di Trapani, Rocco Lo Pane, il quale ha risposto al pubblico ministero in merito alle attività di riscontro svolte dalle fiamme gialle sulle dichiarazioni di Giuseppe Ferro e, in particolare, sull’appalto dell’acquedotto di Alcamo. Il colonnello Lo Pane ha riferito nello specifico circa due affermazioni del collaboratore di giustizia fatte in precedenza alla DIA: quella del 3% dell’importo dell’appalto dell’acquedotto, che gli imprenditori hanno pagato alla famiglia mafiosa di Alcamo (secondo le ultime operazioni antimafia tutt’ora vigente); e quella sul funzionario del Comune di Alcamo, tale Sciacca, che aveva fatto saltare degli accordi tra la mafia e Perricone, nonostante avesse intascato delle tangenti. L’alto ufficiale delle fiamme gialle ha inoltre precisato la distinzione per tipologia delle società Promosud s.r.l. e Promosud soc.coop., quest’ultima con sede in via Goldoni n°6 ad Alcamo, dove si riuniva, come definito dall’accusa, il “comitato d’affari” riconducibile all’ex vicesindaco.

Linda Ferrara

redazione

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