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Dalla protesta al governo

Cominciamo da ciò che era ampiamente preventivabile: nessuno tra gli schieramenti in campo otterrà la maggioranza in Parlamento. Il “Rosatellum” era stato confezionato esattamente con tale scopo e da questo punto di vista ha davvero funzionato. La conseguenza di questa situazione è che i leader e le forze politiche che si sono fatti la guerra fino all’altroieri dovranno sforzarsi di trovare un accordo per un governo di larghe intese, individuando punti programmatici compatibili tra loro. In caso contrario si dovrà tornare alle urne.

Di cose meno preventivabili, però, queste elezioni politiche ne hanno regalate in abbondanza: il M5S che supera il 30%, la Lega che stacca Forza Italia, il Pd che scende al minimo storico, Liberi e Uguali che supera a stento il 3%. Un quadro decisamente diverso da quello che i media principali hanno fatto passare in queste settimane e che chi frequenta un po’ più la “strada” aveva avuto modo di intercettare da alcune settimane.

Piaccia o meno, il risultato di una consultazione elettorale fotografa lo stato d’animo che una comunità vive in quel preciso momento. Sebbene gli indicatori economici siano migliorati negli ultimi 5 anni, gli italiani sono arrivati al 4 marzo sfiancati da 10 anni di crisi che ha messo in ginocchio molti settori del Paese. In uno scenario del genere, la prevalenza del voto di protesta è fisiologica. La novità è che stavolta tale orientamento sia prevalso al Sud. Il voto alla Lega al Nord, infatti, non può essere considerato un voto antisistema perchè nel Nord Est i leghisti rappresentano da decenni la classe dirigente che più ha mantenuto il potere. Salvini è stato un abile prestigiatore, riuscendo nel duplice intento di far dimenticare quest’aspetto ai suoi corregionali e di penetrare anche al Centro Sud, facendo dimenticare gli anni di insulti indirizzati al Meridione.

Ma proprio quel Mezzogiorno che tanto ha alimentato la politica clientelare dei partiti di governo stavolta ha voluto premiare con percentuali bulgare il Movimento 5 Stelle, puntando con convinzione su un ricambio reale della classe dirigente e attraendo i delusi degli schieramenti tradizionali insistendo su alcuni temi d’immediato impatto (la lotta ai costi della politica, il reddito di cittadinanza) e glissando su questioni delicate su cui temevano di giocarsi le simpatie di molti potenziali elettori (politiche migratorie o rigurgiti neofascisti). E’ venuta fuori una proposta post ideologica, che ha spiazzato molti osservatori abituati a una lettura più tradizionale della politica, ma ha trovato il favore della maggioranza relativa degli italiani.

Ora per i pentastellati sarà difficile soddisfare le aspettative di cambiamento dell’elettorato: la vittoria comporta onori ed oneri e Renzi dopo il boom delle Europee di quattro anni fa non avrebbe mai immaginato che la sua luna di miele con l’Italia sarebbe durata meno di un lustro. Il risultato di domenica è una vera e propria Caporetto per la sinistra italiana ed è chiaro che la scissione con il gruppo confluito in Liberi e Uguali ha contribuito solo in minima parte. Più in generale, la sinistra europea sta soffrendo la sua incapacità di confrontarsi con le fasce della popolazione che hanno vissuto maggiormente il disagio economico e sociale in questi anni. Sono venuti meno i vecchi luoghi del confronto e dell’ascolto per lasciare spazio alla pretesa del voto d’appartenenza, il cui peso si è sensibilmente ridotto rispetto a un tempo. Ma è difficile custodire l’entuasiamo in chi l’appartenza magari la sentirebbe se non gli venisse proposta una candidatura come quella di Pierferdinando Casini a Bologna o di tanti ex sodali di Cuffaro o Raffaele Lombardo al Sud. Scelte del genere sono quanto di più lontano si potrebbe immaginare dalle aspettative degli elettori, che non hanno più tanta voglia di turarsi il naso o di affidarsi all’usato sicuro.

Persino Berlusconi, spesso capace di intercettare gli umori del Paese, si è ritrovato a prendere atto che nessuna tra le sue promesse poteva più far breccia nei cuori degli italiani e il tour de force elettorale in tv – in barba all’interdizione dai pubblici uffici – non gli ha recato alcun vantaggio.

In attesa di conoscere le indicazioni del presidente Sergio Mattarella e la composizione del prossimo governo, il pensiero va ad alcuni indicatori che poco sono stati citati in questa campagna elettorale: l’Italia oggi viaggia a una media di 4200 suicidi l’anno, ha una disoccupazione giovanile superiore al 30% e il più alto tasso di corruzione continentale, peraltro alimentato dalle infiltrazioni mafiose. Il Bel Paese può rinascere solo se il governo che verrà riuscirà a intervenire seriamente su questi dati. Viceversa, ci sarà sempre qualcuno più nuovo degli altri a cui destinare il proprio voto. E non è detto che sia migliore di chi l’ha preceduto.

Vincenzo Figlioli

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