Irriverente, ironico, impaziente, scomodo. Di un ventenne diremmo che è un ribelle… eppure è lo spirito che ha mosso il maestro Vito Linares fino a poco tempo fa, prima di entrare nella sua “storia del futuro”. Sembrava impossibile, anche per una come me che lo ha conosciuto troppo tardi, pensare che si potesse lasciare un’eredità artistica fino al 2030. E in verità ne rideva anche lui. Sogghignava. Come fanno i bambini quando combinano una marachella lontano dagli occhi dei propri genitori. Suo padre Matteo, matematico e filosofo che gli ha fatto amare l’arte e comprendere la società, era sempre vivo nei suoi ricordi. Era come se, ad ogni mostra, dicesse: “Guarda cosa ho fatto papà, ho messo una rapa sulla testa di un nobile!”.
Nonostante le verità di Vito Linares non piacessero a tutti, troppo profonde, troppo scandalose, ardite, troppo vere in sostanza – che conservo gelosamente come segrete eresie – è stato un maestro per le generazioni più disparate, per i suoi coetanei e per i giovanissimi. Non sopportava i “madonnari”, gli artisti che hanno avuto pennello facile tra le stanze vaticane. Quante volte ne abbiamo parlato, ho trovato persino una via diversa ma più affascinante. Nonostante la sua arte così dissacrante, in Vito Linares la passione non è nata correndo dietro alle tele dei grandi pittori, ma frequentando sin da piccolo l’Associazione Artisti Marsalesi e raccogliendo poi, con devozione, negli anni ’70 – in piena strategia della tensione e Watergate, tra le note di Let it be – le pregiate parole di De Chirico.
Amava spalmare nelle sue tele la società spazzatura che molti puritani credevano “rifiuto dell’arte altrui”. Le mortadelle sporcate di rosso-ketchup hanno accolto nella Chiesa di San Pietro facce sconcertate. Ma, senza che se ne accorgessero, hanno dato vita proprio all’effetto che Vito voleva imprimere sui loro volti di fronte a quelle opere. Avrebbero dovuto conoscere Andy Warhol, o meglio Piero Manzoni e la sua “merda d’artista”. Il “Manzoni quello vero, il Piero”, come dice una canzone, era il fulcro dove vomitavamo, raccontandoci tra una tela e un’altra, la cultura benpensante di chi sta seduto a riscaldare le comode poltrone dei vertici della società e delle istituzioni.
Vito Linares ha saputo negli anni rinnovarsi come artista, passando dalla derisione del nazismo fino alla ricerca degli indizi che sprigionano ora figure da decifrare (perché l’artista e l’uomo Linares rifiutavano i “compartimenti stagni”) ora inquietanti diavoli. La sua arte negli ultimi anni era mutata perché adorava sperimentare, ricercare curiosamente, virando verso un espressionismo che veniva fuori attraverso il collage, il materico, il momento grafico.
Mi ha aperto le porte della sua casa come si apre un cuore, così ho compreso che l’arte non va sempre capita, va ascoltata. L’arte è un rumoroso silenzio, è prigione e libertà, realtà e sogno. L’arte è ossimoro, la più bella tra le figure retoriche. L’opposto ed il paradosso. Non sarà l’ultima volta, spero, per dare voce all’artista Vito Linares, in qualsiasi forma esso si materializzi… “Io spesso, per potermi ritrovare, devo dimenticarmi; e, nell’oblio, cercarmi in mezzo ai compagni del mio andare” [ M. L. ]